13 febbraio 1944. Battaglia di MEGOLO

L’Osservatorio: il racconto della battaglia da parte di un superstite,Gino Vermicelli,all’epoca dei fatti poco più che ventenne,fa rivivere l’eroismo di quel pugno di partigiani che a Megolo,nelle vicinanze di Verbania, esattamente 76 anni fa,accettarono battaglia contro le duecentocinquanta SS e Repubblichini che li avevano circondati. Il comandante della formazione partigiana  Filippo Beltrami,36 anni,il commissario politico Gianni Citterio “Redi”,35 anni, e 10 partigiani,alcuni dei quali appena diciassettenni,persero la vita nel combattimento,  gli altri,i superstiti continuarono la lotta al nazifascismo in Val d’Ossola. 

Il Racconto di Gino VERMICELLI

foto di Gino Vermicelli sul tesserino partigiano

 

“Verso le cinque del mattino un leggero velo di fumo comincia ad alzarsi dal paese e l’odore del castagno bruciato giunge sino alla sentinella di guardia a metà strada tra Megolo e l’accampamento. È un buon odore quello, familiare, rassicurante. Per la sentinella significa che laggiù le donne si sono alzate per accudire alla casa e al bestiame, che tutto è tranquillo, che la vita riprende come ogni giorno.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 In febbraio il freddo è ancora pungente un Val d’Ossola. Al mattino, poi, morde ancora di più. Alle sei la sentinella finisce il suo turno ed entra nella baita. Ravviva il fuoco, si toglie le scarpe ed avvicina alla fiamma i piedi intirizziti. Allettato da crepitio della fascina che arde, mi alzo e vado a sedermi vicino al focolare. Sono almeno quindici giorni che non ci spogliamo. Si dorme vestiti. Qualcuno si toglie le scarpe, altri no. Quelle catapecchie sopra Megolo non sono mai state costruite per essere abitate, dato che il paese è a un tiro di schioppo. 

Qui, in mezzo ai castagni, i contadini hanno costruito casupole per riparare la legna, custodire il fieno e talvolta ritirarvi il bestiame. Ora ci siamo noi: due baite fanno da dormitorio, con una striscia di mezzo metro di largo in terra battuta per il giaciglio; altre sono il Comando, la Cucina, il Deposito. Quei nomi che sanno di logistica militare non si addicono molto a quelle baite sconnesse, ma è così.  Per quanto tempo rimango lì, seduto su una pietra accanto al focolare? Forse un’ora, forse più. Nella baita già molti si sono svegliati, alcuni parlano e scherzano, altri riordinano la loro poca “roba”.

Uno più diligente esce con il sapone ed asciugamano per andarsi al lavare al rigagnolo che scorre qualche cinquanta metri più in alto, ma torna subito pallido ed eccitato.

– Ci sono i tedeschi, ci sono i tedeschi, sono qui sotto, qui sotto, vi dico!

– Sei matto?

– Il paese brucia, bruciano le case di Megolo, correte, venite e vedere!

– È vero, laggiù le case bruciano…

– Bisogna avvisare il Capitano.

– Gaspare, va a dare l’allarme al Comando. Ragazzi, fuori con le armi.

– Dove sono gli ufficiali?

– Ma fregatene delle coperte, prendi le munizioni, prendi!

Saranno passati dieci minuti? Quindici? Forse un solo minuto. Il gruppo del Comando è lì in piedi al centro dello spiazzo. Ufficiali danno ordini ad altri ufficiali. Capi squadra concretizzano gli ordini in movimenti di uomini.

– Voi a destra e voi a sinistra – Tu con la mitragliatrice nella piazzuola al centro.

Si legge, chissà perché, che in battaglia gli ordini sono come frustate. Non è vero. Filippo Beltrami distribuiva i suoi ordini come fossero raccomandazioni, magari severe. E il movimento degli uomini che obbedivano non aveva niente di marziale.

Il distaccamento di cui il nostro gruppo faceva parte fu così destinato al fianco destro, cioè più indietro. Ma già con Gaspare e Carletti avevamo promesso di “fare vedere loro” alla prima occasione, come si combatte, non ci rassegniamo e chiediamo al Comandante di poter rimanere col gruppo più avanzato. Beltrami si consulta con Citterio (Redi), poi manda me a portare le munizioni di un fucile mitragliatore da disporre una cinquantina di metri sotto alla mitragliatrice e decide di tenere Carletti e Gaspare presso di sé.

Ci avviamo alla battaglia. Come si chiamasse il mio mitragliere non lo so. Non ricordo nemmeno il suo volto. Doveva avere qualche anno meno di me, cioè era un giovanissimo, non molto alto, piuttosto esile. Affrontò correndo la discesa verso la nostra postazione, portando il suo “Breda” sulla spalla destra. Io lo seguii col moschetto a tracolla e con la valigetta dei caricatori portata a mano: correvamo a perdifiato giù per il costone. Il paese era lì sotto. Grosse colonne di fumo si innalzavano dai fienili incendiati.

La “Breda”

In un baleno siamo al nostro posto e guardiamo giù. Eccoli, gli uomini dai lunghi cappotti. Eccoli; elmo e cappotto, tutti uguali, grigi e massicci. Poniamo il mitragliatore sulla sua piazzuola. Siamo a un terzo della strada che divide l’accampamento al paese. I gesti dei tedeschi non ci sfuggono, ed essi, invece, non ci hanno ancora visto. Ciò è bene. Il mio mitragliere si prepara alla battaglia con frenesia, come fosse una festa. Carica l’arma, la sistema con cura e subito spara la prima breve, caratteristica raffica del “Breda”. Ecco, sulla strada sotto arriva un camion. Il ragazzo lo prende di mira. “Ta-ta-ta-tac, ta-ta-ta-tac, ta-ta-tac”. È la voce della nostra arma. “Tatatatatatatatatata”.

Una mitragliatrice Tedesca ci prende sotto tiro

Sopra anche la mitragliatrice pesante comincia a conversare. Sotto i tedeschi si nascondono dietro le case. Molti si sono riuniti dietro l’argine della Rumianca. Adesso ci hanno individuati e iniziano contro di noi un fuoco infernale. Una mitragliatrice Tedesca ci prende sotto tiro. I colpi si infrangono sulla roccia attorno a noi, così che questi sembrano l’eco di quelli. “Tac tac tac tac” e giù “Tatatata”. Siamo ben protetti dalla piazzuola attorniata da grossi massi. Alcune fessure per le canne delle armi e niente di più, e contro queste fessure si accanisce il fuoco nemico. Noi, pancia a terra, da quelle feritoie guardiamo giù. I tedeschi hanno cominciato l’avanzata. Stanno salendo. “Guardali, marciano a fischietto”.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       Guardo con occhi sbarrati. Non sembra possibile. Ad un colpo di fischietto i tedeschi di un determinato gruppo, tutti insieme, escono dal loro riparo e balzano dietro ad un altro, più in alto. Qualche secondo di sosta, ordina rauchi per disporre la direzione e poi un altro fischio ed un altro balzo. Il tempo di sparare contro quelli è minimo. Hop-là! Se non sei pronto, quello è di nuovo nascosto, ma più vicino. Fischio-balzo. Fischio-balzo. Fischio-balzo. Noi si spara, ma quasi sempre a vuoto. “Porca, porca miseria. Ce la fanno!”.

La rocca, attorno a noi, è crivellata. Al piano, dietro all’argine del canale, hanno piazzato armi pesanti, e adesso ci stanno passando a setaccio. La battaglia infuria. Loro sparano e noi spariamo. Ma loro sparano di più. Ora hanno anche mortai e cannoncini.

Gli obici scoppiano sopra le nostre teste. Fumo e odore di polvere. Polvere e detriti di roccia. Sentiamo dietro di noi, più in alto, che la nostra mitragliatrice si comporta bene. Il nostro mitragliatore, invece, non va più. Tac. Spara un colpo e poi più niente. Si ricarica. Tac. Spara un colpo e basta. È sempre così con quella maledetta arma. Niente da fare.

Postazione mitragliatrice di Gino Vermicelli. Il gruppo del tenente Fausto Testori, con Jean il francese, Aldo Mori e altri coprivano la zona a sinistra del comando di Beltrami

– Torniamo su e cambiamo le munizioni – dice il mitragliere.

Tornare su è una parola. Sopra di noi è un inferno. Come fare?

– Facciamo come loro – grido – va coul sass! Un balzo e siamo dietro a un masso, più in alto.

Io corro portandomi la valigetta semivuota dietro. Ma il ragazzo deve portarsi l’arma, che è ingombrante oltremodo, anche se non funziona.

Uno, due, tre, dieci balzi ed eccoci sullo spiazzo dove ha preso posizione il gruppo del Comando. Con loro vedo Gaspare. Carletti lo sento dietro ad un costone che comunica ad alta voce cosa vede sulla destra.

– Non ce la facevate più? – chiede Beltrami.

– Non spara più, quello – risponde il ragazzo.

– Smontalo un po’, sei capace, no?

Il ragazzo esita. Il fatto è che il “Breda” lo ha dovuto lasciare appena dieci metri più in giù, sotto il tiro nemico. Ma non dice niente. Sento che si muove. Poi, un lamento soffocato. Di quel ragazzo che sparò accanto a me a Megolo ora proprio non riesco a ricordare il viso. Ricordo che, avvicinandomi carponi, riuscii a vedere, una decina di metri sotto di noi, il suo corpo riverso a pochi passi da un fucile mitragliatore inceppato.

Ora siamo piazzati laddove sbuca il sentiero ed attendiamo i primi gruppi nemici che arriveranno su. La nostra mitragliatrice spara regolarmente e anche dalle ali sentiamo la sparatoria dei nostri. Alla mia destra sentivo Carletti che, nascosto da un avvallamento, non si vedeva. Egli comunicava regolarmente ciò che osservava dal suo versante, e parlava anche d’altro. Con tono scherzoso, noi si rispondeva.

– Allora Edoardo lo fai questo caffé? Tocca a te oggi.

– Andiamo a berlo in paese che lo fanno meglio…

Attendevamo l’arrivo delle prime pattuglie nemiche sul nostro pianoro, ma forse non ce l’avrebbero fatta a giungere sino a quassù. Comunque ci sentivamo abbastanza sicuri. Erano le dieci circa.

Un grido. È Carletti.

– È ferito – dice Citterio.

Beltrami allora lo chiama:

– Ascoltami, non muoverti, ascolta, cerca di raggiungerci piano piano.

– Sì, sì. Ah, il ginocchio.

Un silenzio e poi:

– Aaaaah….an…

Carletti, allora lo chiamavamo con un altro nome che non rammento più, il mio amico Carletti, il nostro compagno, morì così. Siamo in cinque lì: Filippo Beltrami, Antonio Di Dio, Gianni Citterio, Gaspare Pajetta ed io.Non parliamo più. Attendiamo il nemico che già ci spara addosso, dunque non deve essere lontano, ma non lo vediamo. Quanti minuti siamo rimasti così? Non lo so.

Una voce mi chiama, da dietro.

È il tenente Fausto, un tenente dei bersaglieri di Crema, credo, che qui comanda un distaccamento e difende un’ala dello schieramento.

– Abbassati, Edoardo, ti stanno sparando!

Io mi ero piazzato dietro un grosso castagno. Se mi sparano lasciali sparare, pensavo. Comunque girai lo sguardo verso il tronco, sopra la mia testa, quasi per misurarne lo spessore. Maledizione, quella pianta presentava decine di fori appena sopra la mia testa, ma quei fori erano pallottola sparate da dietro, dalle mie spalle o quasi. Mi butto quasi completamente a terra e grido:

– Capitano, Capitano, ci sparano di là, da destra, sono quasi dietro di noi…. guardate questa pianta!

– Tieniti giù, stai attento.

– Sono dietro di noi, bisogna fermarli lì, bisogna…

il capitano Filippo Beltrami

 

Mi getto in una specie di solco e striscio verso il tenente Fausto, a trenta metri dietro di noi. Do un’ultima occhiata alla vecchia pianta ed è allora che vedo il Capitano, Fillippo Beltrami, che si era spostato vicino a quel castagno, cadere riverso con la lingua che gli spenzola dalla bocca.È una visione che è durata un istante, mentre io, col volto appoggiato al terreno, mi spostavo lungo quel solco, sento un urlo tremendo e una voce che grida:  – Redi uccidimi… Redi uccidimi.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   Per lungo tempo credetti che fosse stata la voce del Capitano Beltrami, ma poi ho cominciato a dubitarne. Infatti, Beltrami fu colpito alla gola (ecco la spiegazione della lingua spenzolante) ed un uomo colpito alla gola non può gridare in quel modo.

Ecco, sono col tenente Fausto (Testori). Io sono armato di moschetto, egli, credo di ricordare, ha un’arma automatica corta.

– Dove sono quei maledetti, da dove ci sparano?

– Vengono anche gli altri? Dovete sbrigarvi.

– Il Capitano è ferito. Se non li fermiamo li ammazzano tutti.

– Come possiamo fermarli?

Guardo al riparo da un masso. Sulla nostra destra la colonna dei tedeschi ha trasformato la montagna in un formicaio. Approfittando di un avallamento avanzano, protetti dal fuoco dello schieramento di destra ed in grado di colpire alle spalle, oramai, tutti coloro che sono al centro della battaglia. È finita. Fausto, che era certamente venuto a chiedere nuovi ordini si insinua in mezzo ai massi per raggiungere il suo distaccamento sulla destra. Mi invita a seguirlo. Non so decidermi. Mi siedo dietro a una specie di muretto. Mi sento spossato. Uno strano torpore mi prende. Adesso sento freddo e sete. Le orecchie fischiano, forse ho la febbre. La sparatoria si fa più vicina, più rabbiosa, mi scuote dal torpore. Capisco subito che verso destra non passerò più. Lì i tedeschi controllano tutta la zona, ormai.

I tedeschi, con movimenti organizzati e simulatanei, presero il controllo di tutta la zona

Mi avvio dall’altra parte. Conosco quella strada. So come arrivare al bacino della Rumianca, laggiù. Cammino con passo incerto. Là in fondo degli uomini risalgono il sentiero lungo la valle. Mi scosto e mi nascondo alla meglio. Mantelli lunghi. Tutti lunghi mantelli e in testa elmetti. Sono loro, sono loro e io sono in trappola. Guardo la montagna alla mia sinistra. Qui è una roccia a picco, risalirla è pura follia, se non altro perché diventerei il centro di un tiro a segno. Ma ecco lì una specie di canalone asciutto che solca la parete, spaccandola in due. Certo, da lì salirò. Spossatezza, febbre, tremore, tutto è passato.

Salgo quel rigagnolo pietroso. Presto si trasforma nel salto di una cascata asciutta. Devo liberarmi del moschetto e arrampicarmi con l’aiuto di tutti gli arti, appiccicato alla roccia. Ma forse sono in cima. Sì, forse ci sono. Lassù non dovrebbero ancora essere arrivati. Se arrivo lassù forse sono salvo. Forza, forza, forza. Mi fermo, guardo in su, e il tremore mi riprende. Quel canalone stretto si trasforma in imbuto. Vedo i massi che ostruiscono il passo. Per passare bisognerebbe lavorare col picco per più ore. E io ho solo le mie mani. La speranza cade.

Attorno ora è quasi silenzio. La sparatoria sembra essersi spostata in alto. Sotto, niente. Ecco dunque un barlume di fiducia rinascere. Se nessuno mi ha visto risalire fin qui, forse passerò inosservato. Mi affranco alla parete, piantando solidamente in tacchi in un’anfrattuosità della roccia, con la schiena aderente al sasso, guardando giù. Sotto di me l’accampamento. Appena davanti quello che ormai fu il campo di battaglia. Giù ancora, il paese fumante con i tedeschi che circolano concitati per le strade. Dalle fessure della roccia escono ciuffi d’erba e sottile. Ne strappo alcuni per nascondere i calzettoni bianchi, altri per nascondere un po’ il viso. Attendo. Sotto sento rumori. Sassi che cadono. Gente che sale dalla mia stessa via. Io indossavo una vecchia giacca da cacciatore di fustagno marrone. Nel carniere, dietro, tenevo le munizioni del mio moschetto, alcune bombe a mano ed una minuscola rivoltella procurata non so più come. Piano piano cerco la pistola. Non c’è più. Nel carniere è rimasta solo la bomba a mano.

Ecco, appena l’elmetto spunterà, io gli lancerò addosso la bomba a mano. Non ho altro da fare. Adesso sono calmo, tranquillo e deciso. Con la linguetta della sicura tra i denti, aspetto. I passi si fanno vicini. Si sente anche un mormorio. Saranno a cinque metri sotto di me. Fra tre metri vedrò spuntare l’elmetto. I secondi passano. Eccolo. Non un elmetto vedo venir su, ma un berretto a peli, e sotto una faccia spaventata, con due occhi marrone chiaro, di un ragazzo giovanissimo.

– Chi siete?

– E tu?

– Sei dei nostri?

– Non si va oltre?

– No.

Il ragazzo è salito quasi vicino a e e un secondo sbuca a sua volta. È più piccolo, più tarchiato, sembra meno spaventato del primo. Controlla l’imbuto di pietra e semplicemente dice:

– Che pasticcio.

Sono ragazzi di queste zone, penso. Ecco due vite che seguiranno la sorte della mia. In me si risveglia nuovamente il senso di responsabilità. Siamo in tre, ed io credo di essee il più consapevole.

– Non muovetevi, ragazzi. Affrancatevi contro la roccia e non muovetevi. Forse potremo passarla liscia.

– Ti sei mimetizzato?

Quello dagli occhi marrone chiaro guarda i ciuffi d’erba che mi escono dal collo del maglione, e cerca anche lui di mimetizzarsi un po’. L’altro fruga nelle tasche, racimola qualche mozzicone e briciole sparse di tabacco e cartine. Senza quasi rompere la sua immobilità, adesso sta arrotolando una sigaretta.

– Non fare fuoco adesso, ragazzo, ci sparano…

– Non ci vedranno.

Accende lo zolfanello nella mano e anche il fumo viene emesso piano piano, con prudenza, onde farlo sembrare una vaga nebbiolina. Ammiro la perizia del ragazzo. Quello tira qualche boccata e passa la sigaretta all’altro che dopo un po’, come fosse dovuto, la passa a me. Alla fine torna al suo proprietario che, dopo aver fumato ancora, non getta il mozzicone, ma lo mette in tasca con la certezza che fumeremo ancora. Sotto i tedeschi stanno incendiando la baita.

Le SS, munite di taniche di benzina, appiccarono il fuoco alle baite. L’acre fumo si alzò sopra il Cortavolo e nascose Vermicelli allo sguardo dei mitraglieri

Li vediamo, agli urli degli ufficiali, correre con i bidoni di benzina. Bruciano il fieno e un fumo acre si leva alto nel cielo. Quel fumo che ci investe è un dono per noi. Noi siamo all’ombra, abbarbicati ad una parete esposta a nord, e quel fumo rende ancora più confusi i contorni del nostro rifugio. Guardiamo silenziosi, immobili, abbastanza tranquilli. Quelli sotto urlano.

– Schalf – schlaf – schlaf.

Cosa diranno, perché urlano così?

Adesso uno guarda verso di noi. Si è proprio fermato.

Un soldato tedesco si fermò a guardare verso il punto in cui stava immobile Vermicelli

Guarda in su, chiama un altro e ci indica col dito. Un terzo, che passa con un bidone, si ferma pure a guardare. Arriva un ufficiale. Ha un cannocchiale. Guarda su col cannocchiale. Guarda su col cannocchiale.

– Fermi, non muovetevi – mormoro io. O almeno credo di mormorare perché non so se la parola è uscita dalla mia bocca asciutta. L’ufficiale dà gli ordini. Arriva un soldato senza cappotto con un fucile mitragliatore. Lo piazza con la canna rivolta verso di noi, appoggiato ad un muretto. Ed ecco che vedo quello della sigaretta muoversi piano piano, e togliersi dalla tasca una carta e poi piano piano infilarla in una fessura della roccia.

– Cosa fai? – (non riconosco la mia voce).

– Quelli poi ammazzano mia sorella. La sospettano già.

Egli parla con voce normale. Sa di morire e vuole salvare i suoi nascondendo i suoi documenti d’identità. Ecco che il tedesco senza cappotto ci prende di mira. Io chiudo gli occhi ma poi non riesco a non guardare. Guardo, guardo, guardo la mitragliatrice. Ed ecco che sentii i nostri respiri. Non avevo notato. Su – giù…

– Tatatatatatatatata.

I tedeschi mirarono verso la montagna dove si era rigfugiato Vermicelli, ma non lo colpirono

Hanno sparato. Io sono qui. Per la mia posizione mi avrebbero dovuto colpire al basso ventre. Non sento dolore. Gli altri? Non si muovono. Siamo fermi, siamo vivi, gi altri forse feriti, io no. Quello piccolo parla per primo:

– Non ci hanno beccati, forse non ci vedono bene.

– Fermi, ragazzi, fermi. Adesso fermi. Forse possiamo farla franca.

Cerco di dare un tono sicuro alla mia voce e con sorpresa ci riesco. Sotto sono ormai una dozzina a guardare in su. Ma ecco che arriva uno con un cappotto e si mette ad urlare con voce rauca:

– Schalft – schlaft – schlaft.

Io non so il tedesco e così ricordo che gridava.

Sulla destra del gruppo di Beltrami c’era la baita presidiata dal tenente Bettini, che con i suoi sedici uomini si trovarono dietro la colonna tedesca e si ritirarono compatti sulla montagna

I soldati tedeschi si ritirarono dopo la carneficina

                                                                                                                                                       Il gruppo si scioglie. La mitragliatrice rimane sola, sul muretto, puntata verso di noi. E noi, stiamo lì, fermi come statue. Non del tutto perché quello più piccolo e tarchiato sta frugando piano piano nelle tasche per ritrovare cicche e resti di tabacco onde arrotolare una nuova sigaretta. Alcune ore siamo rimasti lì. Il mitragliere poi venne a ritirare la sua arma, ma guardingo, sospettoso, guardando in su, pieno di diffidenza. Mentre gli ultimi scendono a valle, i primi arrivati al paese venivano inquadrati e fatti sfilare. Armati fino ai denti, agguerriti, disciplinati, spietati, sulla strada terrosa di Megolo quelli marciavano al passo di parata.                                                                                                                                             

 

Ancora una volta avevano vinto. Quello della sigaretta si lascia sfuggire un’esclamazione:

– Adess si che saria bell!

– Che?

– Avere una mitragliatrice…

il commissario politico Gianni Citterio “Redi”

                                                                                                                                                     Ora sentiamo i cani abbaiare. È pomeriggio tardi. Cosa sarà? Sentiamo gridare in dialetto. Sono civili. Scendiamo, ognuno di noi chiede particolari. Così sappiamo che lì, sul pianoro, sono stati ritrovati i cadaveri di vari partigiani. Il Capitano è tra questi, mi dicono subito, poi c’è uno con la barba rossa (Di Dio) e uno grande con i pantaloni alla cavallerizza (Citterio) ed altri ancora.E io a chiedere di un ragazzo giovanissimo, imberbe, alto, snello, biondo.

Sembra che non ci sia tra i cadaveri, ma poi un altro contadino mi descrive un altro caduto.– Lo hanno portato giù subito quello – dice.Non vi è dubbio, è lui, anche Gaspare Pajetta è morto oggi. Guardo i miei nuovi compagni.– Io conosco Moscatelli. Venite con me in Valsesia, ragazzi?– Davvero lo conosci?– Certo. Venite.Le ripide montagne sopra Megolo verso la Val StronaI due si scambiano un’occhiata. Mi avvio verso il bacino di Rumianca. Essi mi sono dietro, con passo sicuro. Ormai è quasi buio. Il fuoco divora il bosco lungo il torrente e ci illumina la strada. Era il 13 febbraio del 1944”.

Gino Vermicelli aveva adottato il nome di battaglia “Edoardo”. Dopo la battaglia di Megolo divenne commissario politico del Distaccamento “Beltrami”, poi della Brigata “Rocco” e, infine, della Divisione Garibaldi “Redi”, dispiegata in Val d’Ossola

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