15 -17 Aprile 1975 : Claudio e Giannino

L’Osservatorio: ricordiamo due antifascisti uccisi nelle giornate di Aprile del 1975 , Claudio Varalli e Giannino Zibecchi riprendendo i post pubblicati su Facebook nella pagina “Settant’anni di Resistenza” . Per la morte di Claudio il prezzo che pagherà il suo sparatore Antonio Braggion sarà pressoché ridicolo,nel caso di Giannino ci penserà Francesco Saverio Borrelli,presidente della Corte a mandare definitivamente assolti per”non aver commesso il fatto” gli ufficiali dei CC al comando della colonna mobile e per “insufficienza di prove” l’autista del camion investitore.

                                                                                                                                  Claudio,diciassette anni,frequentava l’Istituto Tecnico per il Turismo.Aveva aderito al Movimento studentesco dopo una milizia politica nelle ACLI. I suoi compagni di scuola lo ricordano nell’assemblea del 14 gennaio ’73,il giorno dopo l’assassinio del compagno Roberto francesi,quando parlò di come di ricorda un compagno morto.A scuola ci andava tutte le mattine in autostop da Baranzate dove abitava con la famiglia,il padre e la madre operai della Temr e della Carbolol,le fabbriche più grosse delle zona e un fratello più piccolo di cinque anni.

Il 16 aprile 1975 a MIlano era in programma una manifestazione per il diritto alla casa, cui partecipano migliaia di persone aderenti ai sindacati degli inquilini, ai gruppi di base cresciuti in quegli anni sulla parola d’ordine della casa come diritto sociale e ai gruppi giovanili della sinistra rivoluzionaria. Al termine del corteo, alcuni militanti del Movimento dei lavoratori per il socialismo si avviarono verso l’Università statale, passando per piazza Cavour. 

In quella piazza un gruppo di neofascisti stava effettuando un volantinaggio: in realtà, come sempre in quegli anni, quel tipo di presenza non era che un pretesto per conquistare una zona, imponendovi una sorta di coprifuoco per qualsiasi manifestazione di antifascismo e aggredendo chiunque fosse, anche solo per l’aspetto, definibile di sinistra. Era quanto avveniva stabilmente alla fine degli anni Sessanta in piazza San Babila, con decine di persone aggredite e talvolta accoltellate gravemente, prima che lo sdegno popolare vi ristabilisse la convivenza civile.                                                                                                                                                      La tattica degli squadristi era sempre la stessa: affermare una presenza, intimidire chiunque non simpatizzasse per il neofascismo e cercare di colpire i militanti di sinistra.In piazza Cavour scattò la trappola: i giovani di ritorno dal corteo vennero aggrediti da un gruppo di squadristi. Reagirono, ma uno dei fascisti, Antonio Braggion, non esitò a sparare ripetutamente,  colpendo mortalmente Claudio Varalli.  Le indagini accertarono rapidamente che il proiettile aveva colto Claudio alla nuca mentre cercava di mettersi in salvo, smentendo la tesi dei fascisti che avevano sostenuto di essere stati vittime di un’aggressione. Alla tragedia si aggiunse la provocazione: vennero infatti fermati una decina di compagni di Claudio alcuni dei quali furono imputati di rissa.

 

In pochi minuti la notizia fece il giro di Milano e piazza Cavour divenne il punto di raccolta spontaneo di tutti gli antifascisti della città, sgomenti e carichi di rabbia per l’ennesimo crimine fascista lasciato impunito. Braggion infatti si era immediatamente reso irreperibile e tale rimase fino quasi al termine del processo.  Il processo per l’omicidio di Claudio Varalli si svolge in primo grado il 5 dicembre 1978. 

Antonio Braggion è dichiarato colpevole di eccesso colposo in legittima difesa putativa e dei reati continuati di detenzione e porto abusivo di pistola e quindi condannato a 10 anni carcere, di cui 2 condonati.  Il Pubblico ministero e i legali di Parte civile presentano appello contro la sentenza. Lo stesso fanno i legali di Braggion che avevano chiesto l’assoluzione per “legittima difesa”.

Il processo d’appello si apre e chiude il 23 marzo 1981.Antonio Braggion è dichiarato colpevole di eccesso colposo di legittima difesa putativa e di detenzione di armi, come in primo grado, ma in virtù della concessione delle attenuanti generiche la condanna scende a 6 anni e 200.000 lire di multa.

Il 26 ottobre 1982 la Corte di Cassazione dichiara prescritto il reato di eccesso colposo di legittima difesa. La condanna a 3 anni per la detenzione illegale della pistola usata per uccidere Claudio Varalli è interamente coperta dal condono.

                                                                                                                                                Giannino,un compagno he lo conosceva lo ricorda così :  “ La sua storia e la sua morte mi ricordano molto quella di Franco Serantini; figlio di nessuno,era stato adottato da una famiglia milanese,aveva frequentato l’Istituto per Ragionieri e si era diplomato. Intanto in quegli anni i genitori adottivi si erano separati e Gianni andò ad abitare con dei compagni;per vivere e per pagarsi le tasse all’Università (si era iscritto a Lettere) aveva sempre lavorato,prima come facchino e poi in un’agenzia.Aveva ventisei anni,aveva lottato nel movimento degli studenti,era dirigente di un comitato antifascista di quartiere” 

Quel 17 Aprile 1975 nel ricordo di Carlo Vismara, compagno di Giannino nei Comitati Antifascisti :

“… quando arriviamo in Cinque Giornate, la parte del corteo che fa capo ai gruppi (AO, LC e altri) si infila direttamente in corso XXII Marzo, mentre il settore dei Comitati Antifascisti si dirige verso la Statale. La sera prima, in una riunione, eravamo giunti alla conclusione che ingaggiare uno scontro con le forze dell’ordine – poiché è evidente che la polizia non starà a guardare mentre una folla prende d’assalto la sede simbolo del neofascismo milanese – fosse una opzione da evitare.                                                                                                           

Ma quando ci ritroviamo con i CAF delle altre zone nei pressi del Palazzo di Giustizia, ci consultiamo brevemente e cambiamo parere: gli altri manifestanti si stanno di certo battendo, non possiamo chiamarci fuori. 

E così, di buon passo, ci muoviamo verso via Mancini. Al nostro arrivo, constatiamo che il corteo è quasi completamente defluito e che lo scontro davanti alla sede del fascisti sta volgendo al termine.

Per alcuni minuti continua lo scambio di sassi e lacrimogeni, ma poi polizia e dimostranti si ritirano alle estremità della via, schierandosi in un fronteggiamento che vuol dire «per oggi basta così».

E, invece, non basta. Mentre ritorniamo sui nostri passi, dall’angolo di Cinque Giornate spuntano alcuni mezzi dei carabinieri: camion e camionette. Si immettono nella via a tutto gas. Ci stiamo allontanando dal luogo dei disordini in ordine sparso, distribuiti per tutta la lunghezza del marciapiede destro, qualcuno è quasi arrivato nei pressi della piazza, gli ultimi si trovano poco prima dell’incrocio con via Cellini. All’improvviso uno dei camion balza sul marciapiede e comincia a percorrerlo, costringendo la maggior parte dei compagni a far corpo unico con le grate abbassate dei negozi per evitarlo. Quelli che si trovano più indietro, vedendolo arrivare, d’istinto si portano in mezzo alla strada. Ma davanti a via Cellini c’è un palo con un orologio e il camion lo evita, tornando bruscamente sulla carreggiata.

 

                                                                                                                                          Quando noi, che eravamo rimasti indietro, abbiamo saltato per evitare l’impatto, abbiamo creduto di avercela fatta, tutti. E invece Giannino è rimasto sotto le ruote. In molti, al momento, non ce ne siamo neppure accorti. Abbiamo continuato la nostra corsa verso piazza Cinque Giornate dove abbiamo ricomposto i cordoni. Lì sono arrivate le prime notizie, dapprima vaghe («C’è un morto»), poi più precise («È morto Giannino»). È morto in mezzo alla strada, la testa schiacciata da quel camion, così schiacciata che il cervello, praticamente intatto ne è schizzato fuori, finendo a qualche metro di distanza.

                                                                                                                                                      Il 21 aprile si svolgono i funerali di Zibecchi. In una Milano commossa e indignata sfila un corteo funebre di circa duecentomila persone. La bara è portata a spalle dai compagni dei CAF e, per un tratto, da quelli del MS, nelle cui fila Giannino ha militato per anni.Ai lati, lungo i marciapiedi, migliaia di persone di ogni età, accomunate dal dolore per quella morte, violenta e insultante.  In una piazza del Duomo completamente gremita una selva di pugni chiusi nel saluto comunista dà l’ultimo addio al giovane antifascista”

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