Il 25 Aprile e i suoi nemici.

Il 25 Aprile, festa della Liberazione, è la festa dell’antifascismo. Non semplicemente un giorno di ricordo, con lo sguardo rivolto al passato, dunque, né un’occasione per proporre pacificazioni prive di fondamento storico.
Nella sua appassionata e cristallina orazione ufficiale tenuta a Pavia, Luca Casarotti guarda alla Resistenza,nomina il fascismo, smonta i tentativi di riabilitarlo, dimostra che l’antifascismo è una pratica quotidiana, un impegno, una lotta.              

Una riflessione sulla rappresentazione odierna della Resistenza e del fascismo vecchio e nuovo, proposta dal collettivo Nicoletta Bourbaki in data 2 Maggio 2018, attraverso la lettura e l’ascolto dell’intervento  di Luca Casalotti (vice-presidente dell’ANPI Pavia centro – Onorina Pesce Brambilla)

 

Testo dell’intervento con allegato l’elenco delle fonti

1.Lo slogan che scandiamo più spesso, lungo il corteo che ogni anno ci conduce qui in Piazza Italia, consiste di due versi, com’è frequente per gli slogan. Il primo recita: «Il 25 Aprile non è una ricorrenza». Il secondo lo completa, echeggiando Calamandrei: «ora e sempre Resistenza». Questo motto ormai classico, che caratterizza le piazze antifasciste con costanza almeno dagli anni ’60, coglie una verità fattasi nel tempo sempre più palese, ossia che la rappresentazione del 25 Aprile, specie nel discorso istituzionale, tende a celebrare il momento della Liberazione isolandolo dal suo contesto. In questa rappresentazione il conflitto e il nemico vengono obliterati o relegati a uno sfondo indistinto. Sfuocate si percepiscono le ragioni della guerra partigiana, edulcorato e come sublimato il modo in cui fu combattuta. Persino il nome del nemico è pronunciato di rado, quasi che non dire il nome serva a scongiurare il ritorno della cosa. Le riflessioni che vorrei oggi fare con voi riguardano questa rappresentazione corrente del fascismo e della resistenza, poiché a tale rappresentazione solamente, e non agli eventi rappresentati, mi è dato assistere, e di essa solamente mi è dato perciò parlare in maniera, mi auguro, credibile.

2. Due anniversari sollecitano la riflessione attorno a questo 25 Aprile: cadono infatti nel 2018 l’ottantesimo anno dalla promulgazione delle leggi razziali, iniziata nel settembre del 1938, e il settantesimo dall’entrata in vigore, il 1° Gennaio 1948, della Costituzione repubblicana. Basterebbero queste due date a mostrare che non è possibile comprendere la Resistenza e le sue conquiste senza considerarne il vincolo antitetico con la storia che l’una e le altre ha generato. Non posso che limitarmi a qualche considerazione minima, a fronte d’un tema così vasto. Lo farò dunque adottando la prospettiva che meglio consente d’inquadrare i due anniversari nella loro specularità, cioè quella che ci offre l’art. 3 della Costituzione, nel cui primo comma, come sappiamo, la razza è assunta come una categoria in base alla quale l’ordinamento giuridico non può fondare alcuna discriminazione, ferme restando le azioni positive che devono essere invece intraprese per eliminare le discriminazioni esistenti, giusta la direttiva dell’eguaglianza sociale sostanziale impartita dal comma II dello stesso art. 3.
Il razzismo era stato un carattere costitutivo del fascismo: aveva fatto parte del suo piano originario, a dispetto della vulgata apologetica che afferma il contrario, sostenendo che si sia trattato di un accidente catastrofico, di un cedimento dovuto a ragioni di sudditanza verso il più forte alleato tedesco. Per capire la falsità della tesi assolutoria bisogna esercitare la visione periferica; bisogna cioè volgere lo sguardo al confine orientale d’Italia e alle colonie.
Com’è stato detto autorevolmente, nelle colonie il regime di brutale separazione gerarchica tra i colonizzatori italiani bianchi e i colonizzati neri ha anticipato l’apartheid. Quanto al confine orientale, non vanno anzitutto taciute le responsabilità dello stato liberale nei mutamenti di popolazione all’indomani del 4 Novembre 1918: del clima di nazionalismo esasperato fecero le spese soprattutto tedescofoni, sloveni e croati, espulsi a centinaia perché sospettati di fare propaganda anti-italiana. In questo clima, uno dei primi atti squadristi nella Venezia Giulia annessa all’Italia con la fine della prima guerra mondiale fu l’incendio a Trieste del Narodni dom, simbolo cittadino delle comunità slovena, croata e ceca. Una volta al potere, il fascismo attuò una politica che assunse la denominazione ufficiale di «bonifica etnica», finalizzata all’italianizzazione di un territorio storicamente multiculturale e mistilingue, cui doveva corrispondere la snazionalizzazione (meglio: la cancellazione) delle comunità allogene, complessivamente e dispregiativamente identificate come “slave” (la connotazione spregiativa dell’attributo sta nella sua etimologia, che è la stessa di “schiavo”). E laddove non riusciva la pressione burocratica del regime, subentrava la violenza fisica spinta fino all’omicidio, come fu per Lojze Bratuž, un organista sloveno che dirigeva un coro e lo faceva cantare in sloveno. Per questo solo motivo Bratuž trovò la morte, dopo che gli fu fatto bere olio per motori. Prodotto grottesco e insultante della bonifica etnica fu l’italianizzazione dei toponimi e dei cognomi. Tutto ciò ben prima del 1933 e dell’avvento del nazismo.
A questo stato di cose reagisce l’Assemblea costituente scegliendo di fare menzione della razza all’art. 3. Settant’anni più tardi ci chiediamo se abbia ancora senso mantenere nel testo della Costituzione quella «parola maledetta»: la formula è di Meuccio Ruini, che in seno alla Costituente presiedette la commissione cosiddetta “dei settantacinque”, incaricata di redigere il progetto di Costituzione da sottoporre all’assemblea plenaria. A rilanciare il dibattito ha contribuito di recente un volume collettaneo, significativamente intitolato No razza, sì cittadinanza, alla cui stesura hanno partecipato molti studiosi dell’università di Pavia. Non voglio qui prendere posizione su questo interrogativo, che si pone all’incrocio tra diritto, linguistica, antropologia e scienze biologiche. Oggi il mio compito è semmai ricordare che lo stesso interrogativo si era posto il Costituente, e che la decisione di adoperare la parola “razza” nel testo della Carta fondamentale fu il frutto non d’una scarsa avvedutezza scientifica, ma d’una scelta politica e lessicale estremamente consapevole. Di tutto ciò offrono testimonianza i lavori dell’assemblea.
Nella seduta del 24 Marzo 1947, Mario Cingolani propose infatti di sostituire, nel testo dell’art. 3, alla parola “razza” la parola “stirpe”. L’emendamento venne respinto. Nella discussione furono decisivi gli argomenti di due colleghi di Cingolani, Renzo Laconi e lo stesso Meuccio Ruini che ho menzionato poc’anzi. In nome della razza, essi sostennero, il fascismo aveva espulso con ferocia sempre crescente i supposti inferiori dalla comunità delle persone cui era accordato anche il solo formale godimento dei pieni diritti, laddove gli inferiori erano tutti coloro che non appartenevano alla razza ariana, o alla «pura razza italica», come si leggeva nel Secondo libro del fascista, un testo destinato all’educazione elementare. Il concetto di razza, una volta legittimato giuridicamente, aveva aperto la strada alla discriminazione tra esseri umani, alla deportazione, allo sterminio. Non si poteva fingere che ciò non fosse mai accaduto; occorreva invece impedire che la razza continuasse a essere una categoria in ragione della quale lo Stato potesse fondare nuove o vecchie discriminazioni. Per questa causa il termine “razza” compare nella Costituzione. Si è trattato dunque di una ragione storica obiettiva e contingente, come disse Ruini.
In questa luce appare tutta la pochezza di quello che non è nulla più d’uno stratagemma retorico: invocare cioè la Costituzione per giustificare un assunto razzista. È mio dovere non essere vago: come sappiamo, durante l’ultima campagna elettorale, il futuro presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana ha prima invocato la “razza bianca” come un dispositivo di esclusione, poi si è giustificato affermando che anche la Costituzione parla di razza. È un espediente misero. Chi se ne serve dimostra (o finge) di non aver capito il senso dell’art. 3. A settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione c’è da chiedersi se la contingenza di cui parlava Ruini sia nel frattempo venuta meno. Noi ora sappiamo meglio di allora che le razze umane non esistono. Ma sappiamo anche – o dovremmo sapere – che esiste il razzismo, e che continua a uccidere.

3. Torniamo adesso alla vulgata apologetica che vorrebbe rimuovere il razzismo dal piano originario del fascismo, imputandolo alla condiscendenza obbligata del regime a Hitler. Quest’idea, che abbiamo visto essere falsa, ha le sue radici in uno dei più pervicaci stereotipi sull’indole del bravo italiano, in contrapposizione qui al cattivo tedesco. Uno stereotipo di cui durante la seconda guerra mondiale si servì la propaganda alleata prima, e anche quella badogliana in seguito, con il fine d’instillare nella popolazione un sentimento d’avversione verso il regime, e poi verso lo stato fantoccio di Salò. Dopo la guerra, lo stesso stereotipo divenne un adagio giustificazionista, sfruttato per non fare i conti con l’eredità del fascismo, che si voleva percepire ormai come un fenomeno altro dallo Stato nuovo. E mentre questo racconto autoassolutorio prendeva corpo anche nell’opinione pubblica, in molti settori dello stato repubblicano (prefetture, questure, scuole) continuavano a operare, spesso in posizioni di vertice, gli stessi funzionari che si erano formati sotto il fascismo e avevano servito il regime. Nessuna Norimberga, nessuna palingenesi. A ciò è da aggiungere la larga applicazione che la magistratura fece del provvedimento di amnistia del 22 Giugno 1946 voluto da Togliatti.
Oltreché sull’indulgenza per le politiche razziste, la vulgata riabilitatrice del fascismo si è da sempre retta su un’altra pseudotesi, attualmente molto in voga, e compendiata nello slogan secondo cui il fascismo avrebbe fatto anche cose buone. Si tratta di propaganda grossolana, che non regge alla verifica dei fatti, impietosamente demolita già da tempo eppure ancora circolante. Mistificazioni come quella per cui Mussolini avrebbe inventato la previdenza sociale e dato la tredicesima mensilità a tutti i lavoratori. In realtà il sistema previdenziale esisteva dalla fine dell’Ottocento, e il regime introdusse la gratifica natalizia ai dirigenti e agli impiegati del settore industriale, mentre agli operai aumentò le ore di lavoro, non il salario. Al riparo della sua retorica socialisteggiante, il fascismo ha sempre fatto l’interesse del grande capitale, non della classe operaia. E badate che questo giudizio non è condiviso solamente dai marxisti: uno di coloro che l’hanno formulato con più chiarezza è Ernesto Rossi, il quale fu uomo d’idee liberali, coautore del Manifesto di Ventotene. A diffondere questa propaganda apologetica è oggi soprattutto l’ambiente – un manipolo di pagine sui social network – che per i contenuti veicolati si è guadagnato il nomignolo di “fascio-facebook”. Si potrebbe quindi pensare a un fenomeno di internet: il che sarebbe comunque rilevante, data la platea dei potenziali fruitori. Ma non si tratta solo di questo: delle stesse mistificazioni è fatto un uso politico che rasenta l’apologia del fascismo. «Per i pensionati ha fatto sicuramente di più Mussolini della Fornero»: la dichiarazione, del Febbraio 2016, è del leader della Lega Matteo Salvini.
C’è, poi, una vulgata riabilitatrice dell’uomo Mussolini, protesa nello sforzo di raccontarne le gentilezze, le paure e le piccole meschinità private; cioè di plasmare nella coscienza collettiva il ricordo del comune individuo, e non del dittatore a capo di un regime criminale. In questo biografismo ombelicale scompaiono la politica e la storia, e rimane solamente un pugno di aneddoti pruriginosi. Artefici di questo cattivo racconto sono stati intellettuali generalmente riveriti nel nostro Paese: su tutti Indro Montanelli, che specie negli ultimi anni della sua vita ha goduto di una fama trasversale agli schieramenti politici. Nell’immediato dopoguerra Montanelli fu tra i primi, insieme al collega giornalista Paolo Monelli, a comprendere le potenzialità dell’operazione riabilitatrice. Potenzialità anzitutto politiche, perché riabilitare Mussolini permetteva di perpetuare nell’opinione pubblica l’idea che a risolvere i problemi dell’Italia dovesse essere l’uomo forte al comando. Com’è evidente a chiunque, l’idea è ben lungi dal tramontare, non solo nella cultura di destra. Di tono simile a quello montanelliano erano gli articoli dedicati al duce dai periodici a diffusione di massa «Oggi» e «Gente», e spesso firmati da giornalisti che restarono per tutta la vita fedeli alle loro convinzioni fasciste: per «Oggi» scriveva Ivanoe Fossani, già promotore dello squadrismo nel mantovano e confidente dell’Ovra, per «Gente» Giorgio Pisanò, già volontario della RSI

4. All’intento di riabilitare il fascismo s’accompagna l’insistenza nell’imputare la caduta del regime a un affare tutto interno al partito nazionale fascista e nello svalutare di conseguenza il ruolo dell’antifascismo, fino praticamente ad annullarlo. La vulgata antipartigiana è infatti l’altra faccia dell’apologia del fascismo. È bene chiarirlo: non si tratta di una narrazione confinata alla propaganda risentita della destra nostalgica, ma di un discorso alimentato da una divulgazione diretta al grande pubblico, che attinge talvolta acriticamente dalla pubblicistica neofascista. È quanto la storiografia ha messo in luce riguardo ai libri del ciclo dei vinti di Giampaolo Pansa, cui pure ha arriso il successo editoriale. La vulgata antipartigiana si esercita soprattutto sugli episodi di maggiore conflittualità nella guerra di Liberazione, su cui la memoria è, e non può non essere, divisa. Il caso probabilmente paradigmatico è l’attacco di via Rasella a Roma, il 23 Marzo 1944: per decenni, il discorso pubblico attorno all’azione dei GAP contro il Polizeiregiment Bozen è stato inficiato da falsi storici e pregiudizi messi in circolo dapprima in ambienti repubblichini, poi ripetuti a lungo anche dalla grande stampa. Tuttora la discussione attorno a via Rasella non è immune dai cascami di quella retorica. Non è vero, ad esempio, che l’attacco determinò l’intensificarsi dei bombardamenti sulla capitale: al contrario, essi diminuirono. Ma l’affermazione più odiosa, che rimonta a un articolo dell’«Osservatore romano», è quella secondo cui, non presentandosi al comando tedesco, i gappisti provocarono l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Non fu mai affisso nessun manifesto in cui si ordinava ai partigiani di presentarsi. A Roma, prima delle Fosse Ardeatine, non aveva formalmente avuto luogo alcuna rappresaglia per le azioni partigiane. Dell’eccidio, il comando tedesco diede notizia a massacro avvenuto, con la famigerata formula «l’ordine è già stato eseguito». Paradossalmente, l’azione dei GAP, lodata dagli alleati, è stata ed è ancora denigrata nel nostro Paese: invece che sull’oppressore nazista, in molti preferiscono scaricare sui partigiani la responsabilità di un eccidio disumano, considerato una rappresaglia illegale – ma ciò è forse il meno – dai tribunali che l’hanno giudicato. Altro è mettere in guardia dal feticizzare la Resistenza, facendone un mito sottratto alla verifica storiografica, altro denigrarla, allestendone un racconto diffamatorio del tutto sganciato dalle fonti.

5. Una simile rappresentazione del fascismo da un lato e della Resistenza dall’altro ha progressivamente influito sull’immaginario pubblico, e ha accompagnato il sempre più accentuato disfacimento dell’argine antifascista, fino all’avvento al governo, a metà degli anni ’90, delle forze postfasciste, che mai fino ad allora avevano preso le distanze dalla tradizione – soprattutto repubblichina – di cui il MSI s’era proclamato l’erede. Un salto di qualità al quale ha corrisposto un cambio di paradigma anche nella retorica istituzionale sulla fondazione dello Stato repubblicano, al cui centro s’è installato il motivo della memoria condivisa. Ciò che è accaduto a partire almeno dal discorso d’insediamento dell’on. Luciano Violante alla presidenza della Camera dei Deputati, il 10 Maggio 1996, con il quale l’ex esponente comunista invitava, nell’ottica della pacificazione nazionale, a comprendere le ragioni dei ragazzi «e soprattutto delle ragazze» che scelsero Salò.
Sono tuttavia troppi gli interdetti che ancora impediscono una piena assunzione di responsabilità da parte italiana sul suo passato fascista: dall’uso delle armi chimiche in Africa orientale all’omessa o inadeguata punizione dei criminali di guerra. E non può aiutare a gettare luce su questo nostro passato prossimo, al netto delle buone intenzioni, un museo del fascismo a Predappio: non perché non occorra un progetto museale sul fascismo, ma perché è controproducente – cioè rischia di alimentare ulteriormente il culto per il suo oggetto – inserirlo in un contesto tutt’ora inquinato dai pellegrinaggi nostalgici al paese natale del duce. In uno stato di cose siffatto, costruire una memoria condivisa è possibile solo a patto di rimuovere il conflitto dalla storia: a patto dunque di fare della storia un uso strumentale, asservito alle esigenze politiche contingenti. E quando si costruisce la memoria su basi tanto incerte, capita di confondere l’oppressore con l’oppresso. Per non fare che un esempio, è potuto così accadere che in occasione del Giorno del Ricordo le massime istituzioni della Repubblica, complice una disposizione di legge formulata in modo talmente vago da consentirlo, negli anni abbiano decorato letteralmente centinaia di militari inquadrati nelle formazioni collaborazioniste della rsi, come ha documentato anche il «Corriere della Sera» nel 2015.

6. Mi rendo conto di aver dipinto un quadro a tinte fosche. Non dobbiamo nasconderci del resto che rinsaldare l’argine antifascista è un lavoro di lungo periodo. È un errore credere che l’emergenza si sia risolta con la debacle elettorale dei partiti neofascisti lo scorso 4 Marzo. Certo, pochi voti sono meglio di tanti, ma il nucleo del problema non è nelle urne. C’è intanto il fatto che alcuni punti del programma neofascista, o fascista tout court, hanno travalicato i confini dell’estrema destra e sono stati legittimati nell’agone democratico. Per molto tempo, fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori il neofascismo non è stato avvertito come una questione politica rilevante. Nel mentre si andava perdendo la capacità di riconoscere la matrice originaria di quelle istanze, appena non fossero state ammantate della simbologia del ventennio, come se servissero il fez e la camicia nera a fare d’una qualunque posizione una posizione fascista. Questo meccanismo presiede alle logiche securitarie in nome delle quali sono continuamente invocate restrizioni all’accoglienza, una repressione penale sempre più severa e sempre meno extrema ratio, un diritto indiscriminato all’autodifesa: temi su cui pare essersi innescata tra le forze parlamentari una rincorsa a interpretare con la maggiore radicalità un bisogno di sicurezza in larga parte indotto e non reale. L’odio per lo straniero (beninteso: l’odio per lo straniero povero) ha contagiato l’immaginario pubblico, e quest’immaginario, non un’astratta follia, ha armato la mano di omicidi, stragisti e tentati stragisti, com’è successo a Firenze nel Dicembre 2011, a Macerata lo scorso 3 Febbraio, e di nuovo a Firenze il 5 marzo.
E ancora c’è la violenza dei militanti, nella maggior parte dei casi organici agli stessi partiti neofascisti che si presentano alle elezioni. Solo dal 2014 ad oggi, il sito “Info Antifa” ha raccolto le notizie di 159 aggressioni compiute da neofascisti. E si può credere ragionevolmente che esista anche una cifra nera, cioè un numero di aggressioni delle quali non si ha notizia.
Con quest’insieme di problemi dobbiamo misurarci, quando vogliamo affrontare le manifestazioni odierne del fascismo. È indubbiamente un compito gravoso e sgradevole; sarebbe senz’altro meglio se non dovessimo occuparcene. Ma è impossibile ignorare la questione e lasciare che il discorso fascista, e la violenza che ne è l’emanazione diretta, guadagnino ulteriore legittimazione nello spazio pubblico.
Noi giungiamo a questo 25 Aprile dopo che nei primi mesi dell’anno una mobilitazione antifascista diffusa, direi “di massa”, ha attraversato l’Italia: pensiamo alle centinaia di presidi e cortei, a cominciare da quello maceratese, che il 10 Febbraio hanno risposto nel migliore dei modi al gesto infame di Luca Traini e all’ideologia di cui quel gesto è espressione. Pensiamo alle innumerevoli manifestazioni di protesta che hanno contestato i comizi elettorali tenuti dai capi delle formazioni neofasciste. Di questo rinvigorito protagonismo antifascista Pavia è stata in un’occasione il centro propulsore. Quando il 3 marzo scorso ha cominciato a circolare la notizia che nella notte qualcuno aveva incollato un adesivo con la scritta «qui ci abita un antifascista» sotto le case di decine di noi, un’ondata di solidarietà e soprattutto di orgoglio antifascista ha superato ben presto i confini cittadini, scatenandosi in tutta Italia. Quell’adesivo, reinterpretato in mille modi, ha cominciato a comparire ovunque: esibirlo ha significato una rivendicazione collettiva di appartenenza. Ha insomma trasformato in un boomerang l’impresa dell’ignoto autore, a cui vogliamo sia data anche ufficialmente un’identità. Che si tratti d’un fascista, possiamo dire senza tema di smentita. Rinnovo da questo palco, a nome di tutte e tutti, la solidarietà a chi di noi ha subito un’intrusione sgradita e pericolosa nella sua vita privata. L’orgoglio dimostrato qui e altrove ha significato anche il rifiuto del ruolo di vittime passive di quella che è a tutti gli effetti un’intimidazione.
Nei mesi scorsi s’è poi conclusa per molti la vicenda giudiziaria che aveva fatto seguito al presidio antifascista del 5 Novembre 2016, che le forze dell’ordine vollero provare a disperdere con l’uso della forza. Come sapete, il presidio era stato indetto per protestare contro la marcia dei militanti neofascisti organizzata nello stesso giorno dall’associazione “Recordari”. L’archiviazione sancisce che non ci fu in quell’occasione nessuna delittuosa resistenza a un pubblico ufficiale. Sono inoltre convinto che i sette compagni per i quali l’iter non s’è ancora concluso (tra di loro c’è il presidente del circolo ANPI cittadino), e ai quali va la mia vicinanza complice, dimostreranno la fondatezza giuridica delle loro ragioni. Sulla moralità del nostro gesto, che allora chiamammo «disobbedienza civile», non abbiamo mai avuto il minimo dubbio. E permettetemi, paragonando il grande al piccolo, di usare il sostantivo “moralità”, con il quale coscientemente richiamo il sottotitolo dell’opera maggiore di Claudio Pavone.

7. In conclusione del mio intervento ringrazio l’ANPI, organizzazione di cui sono esponente, e la Rete Antifascista di Pavia, alla quale l’ANPI partecipa insieme a molte associazioni cittadine e a molte singole persone: il lavoro pluriennale di queste realtà ha radicato a Pavia una forte consapevolezza antifascista e ha contrastato ogni tendenza a passare sotto silenzio o minimizzare l’importanza del tema.
Si sa che, quando diviene luogo comune, un concetto perde gran parte della sua capacità di produrre significato e di tradursi in pratica. È quello che accade con le espressioni «Costituzione nata dalla Resistenza», o «repubblica nata dalla Resistenza», se – come spesso capita – le ripetiamo in maniera meccanica, formulaica, vorrei dire “disimpegnata”. Per dare senso a queste espressioni, cioè per impedire che divengano parole senza idee, bisogna raccontare la Resistenza senza infingimenti, per ciò che essa fu, nelle sue componenti di guerra civile, patriottica e di classe. Bisogna raccontare il fascismo storico e saper riconoscere il fascismo odierno, che non può presentarsi come quello d’allora, ma che non di meno ripete i caratteri del fascismo eterno, l’ur-fascismo di cui parlava Umberto Eco: il virilismo, il culto della bella morte, l’elitarismo posticcio e il conseguente disprezzo del più povero, la narrazione di una comunità necessariamente coesa, mai attraversata al suo interno da conflitti, e la conseguente individuazione d’un nemico sempre straniero… Le istituzioni non vivono disincarnate dalla storia, ma assumono le forme che dà loro chi di volta in volta le impersona. Non basta dunque che un’istituzione, un partito, un’associazione culturale, una comunità siano dichiarate antifasciste una volta, perché lo siano in eterno. Serve che la prassi realizzi quell’iniziale statuizione di principio.
Che la festa della Liberazione possa darci la forza morale necessaria a essere e dirci quotidianamente antifascisti. È ciò che auguro anzitutto a me stesso. A questa scelta di campo spero d’aver tenuto fede, pronunciando oggi le mie parole. Ringrazio voi tutte e tutti per avermi voluto ascoltare.

Elenco ragionato delle fonti
Qui di seguito cito i testi che ho consultato per la stesura di questo intervento. Menziono soltanto quelli che attengono direttamente ai temi trattati: altre letture e altre esperienze, come ovvio, hanno influito sulle posizioni che ho espresso.
1. Sul discorso istituzionale attorno al 25 Aprile seguo l’impostazione proposta da Vanessa Roghi, Non c’è liberazione senza antifascismo, internazionale.it, 22 Aprile 2015, https://www.internazionale.it/…/25-Aprile-resistenza-libera…, (consultato il 27 Aprile 2018).
2. Sul razzismo come carattere originario del fascismo, e sul colonialismo fascista come anticipazione dell’apartheid si può vedere Enzo Collotti, La politica razzista del regime fascista, http://www.italia-liberazione.it/novecen…/interCollotti.html (consultato il 27 Aprile 2018). Sulla bonifica etnica del confine orientale, un’esposizione efficacie e sintetica si trova nell’articolo di Piero Purini, Il prequel del Giorno del Ricordo. La venezia Giulia dalla prima alla seconda guerra mondiale, in Nicoletta Bourbaki (a cura di), La storia intorno alle foibe, internazionale.it, 10 Febbraio 2017, https://www.internazionale.it/…/nicoletta-…/2017/02/10/foibe(consultato il 27 Aprile 2018); per una trattazione approfondita si veda, dello stesso autore, la monografia Metamorfosi etniche: i cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria (1914-1975) [2° edizione] Kappavu, Udine 2014. Piero Purini, la cui famiglia ha subito le conseguenze dell’italianizzazione forzata, ha di recente riacquisito l’originario cognome Purich.
A proposito del dibattito sulla parola “razza” in costituzione, il volume collettaneo che cito nel testo è quello curato da Manuela Monti e Carloalberto Redi, No razza, sì cittadinanza, Ibis, Pavia 2017. Traggo le informazioni sulla seduta dell’Assemblea costituente del 24 Marzo 1947 da Girolamo De Michele, La parola “razza” e la Costituzione, 22 Gennaio 2018, http://www.lacostituzione.info/…/la-parola-razza-e-la-cost…/ (consultato il 27 Aprile 2018). Per le dichiarazioni di Attilio Fontana sulla razza bianca a rischio, rilasciate a Radio Padania il 14 Gennaio 2018, e per il successivo appello strumentale alla Costituzione, si veda ad esempio Attilio Fontana colpisce ancora. «La costituzione parla di razze, allora dovrebbero cambiarla», L’Huffington Post, 16 Gennaio 2018, https://www.huffingtonpost.it/…/attilio-fontana-colpisce-a…/ (consultato il 27 Aprile 2018).
3. Dallo stereotipo del cattivo tedesco e del bravo italiano prende il titolo lo studio di Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013. Sulla mancata epurazione degli apparati statali dopo il fascismo è fondamentale il libro di Davide Conti, Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana, Einaudi, Torino 2017. Dell’amnistia Togliatti si è occupato Mimmo Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 22 Giugno 1946: colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano 2006. Sulle mistificazioni a proposito delle “cose buone” che anche il fascismo avrebbe fatto è istruttivo l’articolo di Leonardo Bianchi, Quando c’era lui. Le bufale sul fascismo a cui la gente continua a credere, vice.com, 24 Luglio 2017 https://www.vice.com/…/bufale-storiche-sul-fascismo-mussoli… (consultato il 27 Aprile 2018) (ove è riportata la dichiarazione di Matteo Salvini citata nel testo). Per le tesi di Ernesto Rossi sul fascismo a servizio del grande capitale si veda la sua raccolta d’interventi I padroni del vapore, Laterza, Roma-Bari 1955; ora Caos, Roma 2016. La vulgata riabilitatrice di Mussolini è analizzata nel saggio di Mimmo Franzinelli Mussolini revisionato e pronto per l’uso, in Angelo Delboca (a cura di), Neri Pozza, Vicenza 2009, pp. 203-236.
4. Per la critica al ciclo dei vinti di Giampaolo Pansa si vedano Ilenia Rossini, L’uso pubblico della Resistenza. Il caso Pansa tra vecchie e nuove polemiche, scaricabile da academia.edu (http://www.academia.edu/…/L_uso_pubblico_della_Resistenza_i…; consultato il 27 Aprile 2018); Gino Candreva, La storiografia à la carte di Giampaolo Pansa, in “Zapruder” n. 39 (2014), pp. 126-135 (http://storieinmovimento.org/…/Zap-39_14-StoriaAlLavoro2.pdf; consultato il 27 Aprile 2018). Sulla propaganda fascista attorno all’eccidio delle Fosse ardeatine è imprescindibile il volume di Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse ardeatine, la memoria, Feltrinelli, Milano 2012: sull’attacco di via Rasella si veda inoltre l’esemplare lezione di Alessandro Barbero, Le reti clandestine. Una rete di partigiani: i GAP di Roma e l’attentato di via Rasella, tenuta al festival della mente 2017 di Sarzana (https://www.festivaldellamente.it/it/9502, consultato il 27 Aprile 2018; disponibile anche su YouTube).
Nella Roma occupata dai nazisti, le Fosse Ardeatine furono la prima rappresaglia dichiarata come tale. Precedentemente c’erano state numerose fucilazioni per ritorsione ad azioni partigiane, ma queste esecuzioni erano di solito precedute da processi-farsa in cui i fucilandi venivano condannati per atti compiuti da loro stessi (e non quindi come ostaggi uccisi per punire atti commessi da terzi). Cfr. Alessandro Portelli, L’ordine è già stato eseguito, cit., p. 208. Va comunque respinto l’argomento ricattatorio secondo cui i partigiani, sapendo che ci sarebbero state delle rappresaglie, avrebbero fatto meglio a starsene a casa. Dai documenti coevi emerge che i comunisti si erano posti il problema e l’avevano risolto decidendo di combattere fino in fondo, senza farsi condizionare dal rischio di rappresaglie. Certamente una reazione bestiale come l’eccidio delle Fosse Ardeatine non era prevedibile, tuttavia occorre riaffermare che un atto di guerra antinazista come quello di via Rasella sarebbe stato militarmente e moralmente giustificato anche qualora i gappisti avessero conosciuto in anticipo l’entità della ritorsione. Cfr. Agire subito, in «L’Unità» clandestina (edizione romana), 26 Ottobre 1943, p. 2. Nello stesso numero, a p. 4, cfr. Pogrom a Roma, di ferma condanna contro il rastrellamento del ghetto perpetrato dai nazifascisti dieci giorni prima: «Lo spirito di solidarietà del popolo italiano verso questi infelici, manifestatosi già in varie forme, al tempo della campagna razzista fascista, domanda giustizia e vendetta di fronte a questo spaventoso delitto commesso contro uomini inermi e innocenti, che si vogliono isolare dal resto della popolazione, col barbaro pretesto di una inferiorità razziale, esistente solo nelle perverse ossessioni di Hitler. […] – A tale inaudita violenza occorre resistere con tutte le forze» (corsivi nostri).
Per alcune questioni di metodo sull’uso delle fonti applicate al caso concreto consiglio anche la lettura del post di Salvatore Talia (in collaborazione con Nicoletta Bourbaki), Un paese di mandolinisti. Wikipedia, i falsi storici su Via Rasella e il giustificazionismo sulle Fosse ardeatine, Giap, 5 Maggio 2015, https://www.wumingfoundation.com/…/un-paese-di-mandolinist…/(consultato il 27 Aprile 2018).
5. Il discorso pronunciato da Luciano Violante in occasione dell’insediamento alla presidenza della Camera dei Deputati si può leggere sul sito istituzionale della Camera (http://storia.camera.it/…/xiii-legislatura-dell…/discorso:0…; consultato il 27 Aprile 2018). La letteratura sulla memoria condivisa è sterminata. Qui ho tenuto presente in particolare Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino 2004. Per approfondire il tema dell’uso delle armi chimiche in Africa orientale il punto di partenza è Angelo Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Editori riuniti, Roma 1996. Sull’omessa o insufficiente punizione dei criminali di guerra fascisti si possono vedere i volumi di Davide Conti e Mimmo Franzinelli citati al nr. 3. Del progetto di un museo del fascismo a Predappio si occupa il reportage di Wu Ming 1, pubblicato in tre puntate, Predappio Toxic Waste Blues, Giap, 27 Ottobre 2017, 7 Novembre 2017, 15 Novembre 2017 (https://www.wumingfoundation.com/…/predappio-toxic-waste-b…/; https://www.wumingfoundation.com/…/predappio-toxic-waste-b…/; https://www.wumingfoundation.com/…/predappio-toxic-waste-b…/; consultati il 27 Aprile 2018): in appendice alla prima puntata si può leggere una mia nota sul reato di apologia del fascismo. Sulle medaglie assegnate ai militari collaborazionisti in occasione del Giorno del Ricordo si vedano Alessandro Fulloni, Foibe, 300 fascisti di Salò ricevono la medaglia per il Giorno del Ricordo, corriere.it, 23 marzo 2015; Nicoletta Bourbaki, Il Giorno del Ricordo: dieci anni di medaglificio fascista. Un bilancio agghiacciante, Giap, 15 aprile 2015, https://www.wumingfoundation.com/…/il-giornodelricordo-die…/ (consultato il 27 aprile 2018).
6. Sulle logiche securitarie può essere utile consultare il libro di Serge Quadruppani, La politica della paura, trad. it., Lantana, Roma 2013. Sulla marchiatura delle case degli antifascisti a Pavia, e sull’ondata di orgoglio antifascista che ha scatenato, si veda tra i tanti l’articolo di Paolo Gallori, Pavia, antifascisti ‘marchiati’ con adesivi sulla porta di casa: la reazione dei sindaci che si ‘automarchiano’, repubblica.it, 3 Marzo 2018, http://www.repubblica.it/…/pavia_antifascista_segnalati_co…/ (consultato il 27 Aprile 2018). Sulle archiviazioni nel procedimento che ha fatto seguito al presidio del 5 novembre 2016 si veda invece Fabrizio Merli, Presidio antifascista del 5 novembre: prosciolti in 23, laprovinciapavese.gelocal.it, 20 febbraio 2018, http://laprovinciapavese.gelocal.it/…/presidio-antifascista…(consultato il 27 Aprile 2018).
7. È superfluo precisarlo, ma la definizione tripartita della Resistenza come guerra civile, patriottica e di classe è stata formulata da Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991: su questa definizione sono importanti le riflessioni di David Bidussa, In memoria di Claudio Pavone. La Resistenza, le scelte, gli uomini, le donne, glistatigenerali.com, 30 Novembre 2016,http://www.glistatigenerali.com/…/claudio-pavone-la-resist…/ (consultato il 27 Aprile 2018). Il saggio di Umberto Eco a cui alludo nel testo è Il fascismo eterno, La nave di Teseo, Milano 2018, originariamente in Id., Cinque scritti morali, Bompiani, Milano 1997.

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