Italia Burning – alle radici del nuovo fascismo

Pubblichiamo di seguito, il contributo di Stefano Lamorgese ,amico del progetto che ispira il nostro Sito,giornalista professionista, esperto tecnologo e progettista polimediale, con alle spalle una vasta esperienza nella produzione editoriale multipiattaforma; autore televisivo; docente di: sociologia del pubblico, comunicazione e progettazione digitale.

Grazie Stefano e benvenuto

Italia Burning                                                                                                                                                                                         alle radici del nuovo fascismo (28 Agosto 2018 – Stefano Lamorgese)

Com’è possibile che una retorica e una prassi fasciste, esplicitamente tali nei simboli e nello stile, governino oggi il Palazzo della Repubblica italiana, quella nata dalla Resistenza, sulla macerie della Seconda Guerra mondiale e del Ventennio mussoliniano? Com’è possibile che quella retorica, quelle parole, quegli atteggiamenti siano stati nuovamente capaci di prendersi la ribalta, di permeare il dibattito pubblico, di conquistare – gramscianamente – l’egemonia culturale nel nostro Paese? Com’è possibile che – per le strade d’Italia – si moltiplichino le aggressioni, verbali e fisiche, a chiunque non si omologhi chiaramente al pensiero dominante; a chi ha la pelle nera; a chi si dichiara antifascista?

Ci vuole coraggio ad azzardare una risposta. Però è certo che ciò che vediamo accadere oggi in Italia non ha cause recenti. Il motore è acceso da molti anni e il terreno è stato preparato da tempo. Possiamo dirlo con serenità: se da un quarto di secolo in qua il fascismo ha riaperto le sue fauci immonde e ha ricominciato a vomitare i suoi veleni – inquinando le menti, le città, le strade – ciò è stato permesso da volontà politiche esplicite e da colpevoli e superficiali amnesie. Non che si fosse mai spento: è chiaro. Ma nel pur fragile assetto politico repubblicano, anche alle menti più distorte, agli ideologi più compromessi, agli schieramenti più nostalgici e violenti, non si perdonavano con leggerezza e minimizzazioni le espressioni pubbliche razziste, i gesti inneggianti al Ventennio o a qualsivoglia forma simbolica di quel totalitarismo esemplare che l’Italia del primo dopoguerra inventò ed esportò poi in tutto il mondo. Da un quarto di secolo in qua, invece, voci diverse – anche istituzionali, purtroppo – hanno riscoperto la redditizia spendibilità di forme fasciste di espressione politica, fidando nella memoria corta e poco educata degli italiani e nel radicatissimo pregiudizio autoassolutorio che distingue da sempre la stragrande maggioranza dei nostri concittadini. Avvolgendo un gomitolo di sciocchezze e falsità attorno al mito degli “italiani, brava gente”, le classi dirigenti del paese hanno – parola orrenda ma corrente – “sdoganato” il lessico e le prassi degli anni in orbace. Tutti fenomeni preoccupanti, inscritti in un processo perfettamente leggibile.

Come ci siamo arrivati

Il problema ha radici lontanissime, certo. Ma – per brevità – proviamo a partire dal 1996, ventidue anni fa. 
Nel Febbraio di quell’anno Marco Revelli pubblicò, per l’editore Bollati Boringhieri, un saggio intitolato “Le due destre”. Nell’introduzione il sociologo cuneese scriveva: “Oggi, in Italia, non si assiste affatto a una «normale» competizione tra quelle che si è soliti considerare una «destra» e una «sinistra», ma lo spazio politico è occupato, al contrario, in forma prevalente, da due destre: una destra populista e plebiscitaria (fascistoide), da un lato, e una destra tecnocratica ed elitaria (liberale) dall’altro”. L’attualità di queste osservazioni introduttive appare tuttora fulminante, ma è l’individuazione delle finalità di quel processo politico che risulta, ai nostri giorni, ancora più utile. Continuava infatti Revelli: “il fine è esplicito (…), in termini sociopolitici: governare la dissoluzione del «compromesso socialdemocratico» che aveva caratterizzato un lungo ciclo sociale (…); amministrare lo smantellamento della rete di regole e di garanzie che avevano permesso quell’equilibrio tra capitale e lavoro su cui si era basata la democrazia sociale nella seconda metà del Novecento. E farlo a tutto favore del nuovo soggetto che emerge dalle ombre del futuro come totalitaristicamente egemone: l’impresa”. Cercherò di spiegare perché questo ragionamento è utile a comprendere l’evoluzione di un processo lungo molti decenni: un processo che ha tutti i caratteri del “cedimento progressivo” perché, volendo usare un riferimento patriottico, sembra proprio che la Caporetto della sinistra che non abbia ancora trovato il suo Piave.

Governi 

Da allora – dal 1996 – in Italia si sono avvicendati tredici governi diversi: Prodi I, D’Alema I e II, Amato II, Berlusconi II e III, Prodi II, Berlusconi IV, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte (in carica). Nominalmente: dodici anni di centrosinistra, poco più di otto di centrodestra, un anno e mezzo di “governo tecnico” e pochi mesi del recente governo “giallo-verde”.
Chi ha memoria sufficiente per abbracciare i ventidue anni[1] trascorsi dall’uscita del libro di Revelli, sa bene che lo studioso piemontese aveva colto un carattere peculiare della trasformazione in atto nella politica italiana (e non solo). Alla crisi del socialismo e del cattolicesimo democratici – la fine dell’URSS e Tangentopoli, per usare riferimenti sintetici non del tutto astratti – era seguito, stava seguendo, un profondo rimescolamento delle forze in gioco. Un cambiamento globale, certo, non soltanto italiano;  caratterizzato da un poderoso spostamento a destra dell’orizzonte politico. Si trattava di un processo di larghissimo respiro, avviato già dagli anni settanta dai conglomerati finanziari e industriali e poi tradotto in scelte politiche dalla presidenza Reagan e dal governo Thatcher. Prese avvio allora la reconquista dei “poteri forti” ai danni delle democrazie nate dal secondo conflitto mondiale e delle conquiste di tutti i lavoratori e delle loro forme di rappresentanza politica ed economica.

L’Italia della “seconda Repubblica”

In verità, già negli Anni Ottanta del Novecento si erano palesati, evidenti, alcuni segnali di crisi degli assetti istituzionali repubblicani. Un movimento di opinione, fortemente rappresentato ai “piani alti”, spingeva per una trasformazione profonda in direzione – come si diceva allora – “decisionista”. Conseguentemente, dopo Tangentopoli, nella prima metà dei ’90, l’ambizione di modificare la Costituzione (repubblicana e antifascista) divenne ancora più forte, con un unico obiettivo: la “governalbilità”.
L’esito di quel processo è però fallimentare: tra il 1996 e oggi, sono nati e morti (quasi[2]) tutti i tentativi di riforma costituzionale; e sembrano aver esaurito la propria spinta anche le idee che portarono il sistema politico italiano verso una forma maggioritaria della rappresentanza[3].

Il bipolarismo fasullo

Durante il periodo che abbiamo individuato si svolgono quasi interamente sia la parabola politica berlusconiana (dal primo governo – 1994/95 – alla condanna per frode fiscale), che quella del “nuovo” centrosinistra italiano, post-democristiano e post-comunista (da l’Ulivo vittorioso nel 1996 alla disfatta del PD nel 2018). I due soggetti del sistema bipolare si sono oggi dissolti.
I protagonisti di quei quattro lustri – di volta in volta aggregatisi in formule e raggruppamenti artificiali – sono tutti politicamente scomparsi: persino il tycoon e il professore, Berlusconi e Prodi, sono oggi del tutto tramontati, superati, quasi archeologici; certo non solo per via dell’anagrafe. Con loro sono evaporati anche tutti gli altri attori secondari. Fini, Bossi, Segni, Occhetto, Rutelli, D’Alema, Veltroni… La stessa sorte che, prematuramente, è toccata al “rottamatore” Matteo Renzi, il quale, appena cinque anni fa, cominciava a maramaldeggiare sulle macerie del partito che lo aveva irresponsabilmente accolto, finendo per distruggerlo.

Due più due fa quattro 

Dobbiamo oggi constatare che alle “due destre” descritte da Revelli ventidue anni fa se ne sono aggiunte altre due. Più moderne e, contemporaneamente, anche antimoderne. L’inedita coalizione giallo-verde che occupa Palazzo Chigi è frutto, come sappiamo, del successo elettorale del Movimento Cinque Stelle e della “nuova” Lega (Nord) di Matteo Salvini. Da un lato: una proposta radicalmente qualunquista e fondata sull’improvvisazione e l’irriflessività, veicolate e potentemente rappresentate dall’evoluzione dei modelli espressivi e comunicativi delle reti sociali; dall’altro: un movimento “sovranista”, dichiaratamente sciovinista, passato in brevi anni da bandiera del secessionismo regionalista a principale motore di un sentimento neonazionalista.

Perché?

Perché il centrosinistra italiano – lo si è detto – era rimasto abbagliato dal miraggio liberista[4]. Aveva mutato il proprio DNA senza curarsi delle anomalie che tale mutazione avrebbe comportato, imponendo una terribile tabe a tutti noi. Perché non è cresciuta – dal 1996 a oggi – la consapevolezza civile né la cultura storica degli italiani. Perché le uniche armi adatte ad affrontare dialetticamente i linguaggi semplificati dei populismi e la propaganda più becera sono la scuola e la formazione dialettica: i nemici principali della retorica sulla quale si è basato il lavoro comune delle “due destre”. Fu proprio contro la scuola pubblica, contro la ricerca pubblica, contro la collettivizzazione dei saperi che si concentrarono le riforme “aziendaliste” del centrodestra e quelle “efficientiste” del centrosinistra. Perché, come spiegava Revelli, si è agito “a tutto favore del nuovo soggetto che emerge dalle ombre del futuro come totalitaristicamente egemone: l’impresa”.
Occorre ammetterlo: non si è coltivata – soprattutto a sinistra – una riflessione ampia, capace di superare le strettoie obbligate dal tramonto degli ideali rivoluzionari, socialisti ed egalitari la rivoluzione d’Ottobre che – pur con tutte le sue contraddizioni – aveva incarnato e simboleggiato.  Non sono state tutelate le regole che avevano sottoposto l’economia alla politica, cioè: la creazione di ricchezza ai necessari criteri redistributivi. Non è stata ricercata una formulazione teoretica atta a interpretare in senso progressivo e democratico i potenti strappi che il sistema economico neo-liberista imponeva a tutti (governi e popoli, migranti e non), soprattutto nel campo delle nuove forme di organizzazione del lavoro e, più recentemente, della comunicazione e della definizione epistemologica del sapere nella socialità digitale. E poi, ancora: a fronte della progressiva secolarizzazione della società e la scomparsa dalla scena pubblica di soggetti politici di stampo solidaristicamente e fraternamente cristiano, non sono state gettate le basi di un blocco sociale capace di esaltare e difendere i paradigmi e le necessità comuni, a dispetto del sempre più marcato e feroce individualismo che già segnava e oggi distingue la cultura contemporanea.

Due destre in azione

Le “due destre” di Revelli – il partito-azienda di Berlusconi e i post-cattocomunisti pentiti di D’Alema e Veltroni – hanno spento la luce che illuminava, seppur fiocamente, le anguste scale del nostro condominio comune. Inaugurando da Palazzo Chigi la grande stagione del conflitto d’interessi, il tycoon brianzolo ha frullato insieme l’immaginario siliconato delle sue televisioni[5] e i suoi affari miliardari, sempre opachi e troppo spesso anche loschi, coprendo con una gelatina brillante ma indigesta tutto il panorama italiano (un panorama che, va detto, lo aveva visto tra i protagonisti già dal decennio precedente la sua avventura politica).
Gli altri – i “nostri” – in pochissimi anni si tramutarono da statalisti in liberali, da stalinisti in democratici, da rivoluzionari in borghesi, da fierissimi paladini dell’uguaglianza a frequentatori allegri dei salotti più esclusivi. Prigionieri, tra l’altro, di una penalizzante cultura monoglotta, si sono rivelati incapaci di interpretare in senso internazionalista il furibondo processo di globalizzazione dell’economia e del lavoro; folgorati sulla via di Wall Street dal fascino di Clinton, hanno finito per credere che il sol dell’avvenir potesse essere sostituito dal sorriso bianco e allucinato di Tony Blair. Così – mentre già pretendevano di studiare la retorica di una lingua della quale ignoravano ancora la grammatica – decisero che fosse venuto il momento di svendere un secolo e mezzo di lotte, combattute per la costruzione di un’identità collettiva, in cambio di un pugno di stock options o, peggio, del sogno di un paio di scarpe fatte a mano. Furono, i nostri, ancora gramscianamente,  vittime dell’egemonia culturale del pensiero dei loro nemici storici, ai quali avevano nel frattempo concesso tutto, pur di essere ammessi nel club esclusivo a fumare un sigaro di pregio.

La grande crisi: a un passo dal baratro

Agli albori del Terzo Millennio è infine arrivata la grande crisi economica, molto prevedibile ma del tutto imprevista. La “peggiore dal Ventinove”, è stata definita: innescata dagli squilibri speculativi del sistema finanziario globale, da decenni sottratto a qualsiasi forma di controllo politico e divenuto esso stesso il più potente attore politico sulla scena internazionale, ha aggravato e velocizzato tutti i processi culturali, economici e politici già in atto[6]. I più fieri paladini del mercato – i tanti Blair, Clinton o Schroeder: il versante “socialista” di quell’ambigua mitologia – erano già passati attraverso le porte girevoli dei palazzi della City, dalla poltrona del governo a quella di vicepresidente di una banca, di una multinazionale o di una multimiliardaria fondazione, più o meno benefica[7]. Ai neoconvertiti – i nostri “ex” – rimase il cerino in mano. Ormai sprovvisti dell’armamentario ideologico del pensiero critico – proprio quello che, vergognosi, avevano frettolosamente messo in soffitta – tutti (proprio tutti!) i socialdemocratici europei non hanno saputo reagire all’ondata della crisi finanziaria che aspirava (e aspira) a un arretramento definitivo di ogni forma strutturata di redistribuzione del reddito e di equilibrio delle forze economiche in gioco. I loro recenti maestri, i volti che affollavano il loro recentemente riarredato “Olimpo”, ora sghignazzavano senza ritegno, dall’alto dei loro compensi miliardari. Così in Germania, così in Francia, così in Inghilterra.
E ora? 

La recente, apparentemente definitiva disfatta del “renzismo” (ma ormai sembra persino esagerato attribuire a una così breve esperienza il suffisso dottrinario), ha contribuito almeno a sgombrare il campo dall’ambiguità che la sua storia politica ha incarnato. Tuttavia è faticoso muoversi in un panorama tanto desolato e lugubre. Sul palco, al ritmo di tamburi di guerra, si alternano ormai solo mezze figure: guitti in mutande col fucile spianato, ragionieri stanchi e livorosi in canottiera, boriosi plurilaureati all’accademia di internet. Tutti dotati di profili digitali, tastiere infuocate, tutti con la bava alla bocca: ne nasce un minaccioso grandguignol, una danza macabra senza nemmeno una risata. “È finita la pacchia!” urla il nuovo Pulcinella, il vestito un tempo candido oggi lordo di sangue, più simile ormai a Teddy Kruger che alla maschera napoletana.

È la fine? 


Non si può concludere così, con il disastro tra i denti, nemmeno fossimo Tiresia o Cassandra. Per questo –come ho avviato il mio ragionamento con una citazione – così voglio chiudere: con un’altra citazione, da un altro libro a me molto caro: “Conta e racconta. Memorie di un ebreo di sinistra”, di Amos Luzzatto. Verso la fine della sua fatica autobiografica, il medico e saggista cerca di chiarire con la sua consueta, modesta acribia, i confini del suo “essere di sinistra”.

“Che cosa significa dunque «essere di sinistra» (…) al di là delle sigle dei partiti? A mio modo di vedere, i principi che caratterizzano la «Sinistra» dovrebbero essere: 1) il sostegno per le fasce deboli della popolazione, che comprende l’uso di strumenti pubblici volti a farle uscire stabilmente dalla condizione di inferiorità; 2) le scelte di interventi politici ed economici che non rappresentino la contrazione di un debito da far pagare alle future generazioni; in questo capitolo rientrano la salvaguardia dell’ambiente e la salute dell’individuo e della collettività; 3) l’elevazione del livello culturale di tutti, con attenzione a fornire soprattutto ai più giovani una metodologia scientifica di giudizio, che scarti il ricorso sistematico alla delega fondata sulla moda seguita da tutti; 4) l’accettazione dell’iniziativa privata nella misura in cui non contraddica i precedenti tre punti e soprattutto nella misura in cui non si opti per la ricerca del massimo profitto anche quando ne conseguano danni alle persone, alle popolazioni, al territorio”.

È un ragionamento di marcato stampo “costituzionale”. Una formulazione che, semplificando all’osso la complessità del nostro presente, può aiutarci a ritrovare un obiettivo comune intorno al quale poter costruire, tutti insieme, il futuro.

NOTE
[1] Non si è trattato di un ventennio banale. Giusto per provare a elencare un po’ di eventi: l’ascesa al potere di Vladimir Putin, tuttora al Cremlino;  la successione alla guida della Cina, nuova superpotenza, tra Jiang Zemin, Hu Jintao e Xi Jinping;  la bolla borsistica delle dot.com;  la nascita a Seattle del movimento no-global, con la “macelleria” del G8 genovese, due anni dopo;  la strage delle torri gemelle a New York;  la seconda Guerra del Golfo e l’uccisione di Saddam Hussein;  l’avvento dell’euro, la moneta unica europea;  lo tsunami asiatico;  il secondo mandato di Bill Clinton;  i due mandati di George Bush jr.;  i due mandati di Barack Obama;  l’elezione di Donald Trump;   il numero dei terrestri inurbati che supera, per la prima volta nella storia, quello di chi vive in campagna;  l’intera parabola mediatico-politica di al-Qaeda e di Osama bin Laden, fino alla sua esecuzione;  – l’ascesa e la caduta (per ora) dell’ISIS;  – la nascita e il trionfo di Google, Facebook e Amazon e della società interconnessa;  – la strage di Beslan;  le bombe della stazione di Atocha a Madrid;  la strage di Charlie-Hebdo e del Bataclan, a Parigi;  l’incidente nucleare di Fukushima, in Giappone;  la diffusione planetaria degli smartphone e delle reti veloci;  i trionfi e le sconfitte di Lula, in Brasile;  l’epopea autarchica di Chavez, in Venezuela;  l’abdicazione di papa Benedetto XIV e l’elezione, lui vivente, di Bergoglio;  i governi Kirchner in Argentina e i trionfi di Morales in Bolivia;  l’esempio luminoso di Pepe Mujica in Uruguay;  il Messico dei narcos, il paese più pericoloso del mondo;  i due cancellierati di Georg Schroeder e i tre di Angela Merkel (il quarto è in corso);  il trionfo del muscolare nazionalismo indiano di Modi;  la “mostruosa” crisi bancaria del 2008, trasformata in crisi dei bilanci pubblici;  il precipizio politico-economico greco;  l’allargamento dell’Unione Europea a 28 paesi;  le quattro presidenze francesi (Chirac, Sarkozy, Hollande e Macron, in corso);  le primavere arabe, il crollo di Mubarak e la nuova dittatura di al-Sisi;  l’attacco mortale a Gheddafi e la destabilizzazione della Libia;  i trionfi e la misera fine del blairismo, seguito dai “governi dei miliardari” di Cameron e May;  la “Brexit”;  la guerra in Siria e il dramma di cinque milioni di profughi;  l’inasprirsi del conflitto in Palestina e il perdurare di quello afghano; l’esplosione del virus Ebola in Africa;  il ritorno dei filonazisti al governo di Vienna; et cetera…
[2] Una riforma, parziale e mal disegnata, in realtà è andata in porto: la riforma del Titolo V della Costituzione, architettata da Franco Bassanini e fortemente voluta, e alla fine imposta, da D’Alema.
[3] I referendum del 1991 e del 1993 videro la vittoria della proposta maggioritaria; quello del 1999, che fece registrare una maggioranza schiacciante dei votanti a favore dell’abolizione delle quote proporzionali, non raggiunse il quorum.
[4] Chi ha dimenticato le “lenzuolate” di Pierluigi Bersani, con le quali l’allora ministro vantava il monumentale processo di privatizzazione dell’economia italiana?
[5] Matteo Renzi e Matteo Salvini, com’è noto, furono giovanissimi concorrenti di quiz televisivi prodotti e trasmessi dalle televisioni di Silvio Berlusconi. Un tratto comune a due giovani politici di primo piano che è generazionale, certo, ma soprattutto “ideologico”.
[6] Per approfondire può essere utile e interessante leggere Luciano Gallino, “Il colpo di Stato di banche e governi”, Einaudi 2013.
[7] Tony Blair, dopo due mandati al n. 10 di Downing Street, ha assunto incarichi diplomatici globali e ha fondato la “Tony Blair Faith Foundation”, finanziata dall’oligarca ucraino Victor Pinchuk ; Gerard Schroeder è passato dalla Cancelleria a un ruolo chiave nel colosso russo dell’energia Gazprom;

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