Strage di Brescia : il Comando Nato (prima puntata)

Strage di Brescia :

  • Primo livello: gli esecutori, due nuovi nomi
  • Secondo livello: confidenti, infiltrati, servizi segreti, generali e forze dell’ordine.
  • Terzo livello: il Comando Nato.
Poco dopo la strage. In seconda fila, racchiuso nel cerchio bianco “Tomaten” ,in primo piano un parente riverso sul cadavere di una vittima

L’Osservatorio : a dicembre 2021 si sono chiuse le nuove indagini sulla strage di Piazza della Loggia, a Brescia. Due gli indagati. Un minorenne (all’epoca), Marco Toffaloni, detto Tomaten, ora in Svizzera, (nella foto scattata subito dopo la strage si trovava in mezzo alle persone che assistevano ai primi soccorsi) che si è sempre rifiutato di rispondere. L’altro è Roberto Zorzi (non Delfo Zorzi), ora negli U.S.A. Per la Procura di Brescia, sono tra gli esecutori della strage di Piazza della Loggia. In continuità con la sentenza della Cassazione del 2017, che ha condannato Maurizio Tramonte (anche lui fotografato poco dopo la strage, appartenente a Ordine Nuovo e confidente del Sisde con il nome Fonte Tritone) e Carlo Maria Maggi, morto nel 2018, anche lui di Ordine Nuovo. Ancora O.N. protagonista, come nell’attuazione della strage di Piazza Fontana. Marco Toffaloni faceva parte del gruppo Ludwig, gruppo creato da O.N. operante tra il 1977 e il 1984. Tra i collaboratori di giustizia, un ruolo rilevante ha avuto un ex dirigente dell’organizzazione, Giampaolo Stimamiglio, padovano; ha anche confermato che Ludwig non era composto solo da Wolfgang Abel e Marco Furlan. I componenti erano, almeno, 15. Secondo Stimamiglio, sarebbe stato lo stesso Toffaloni a rivelargli il suo ruolo nella strage. Disse che quella di Brescia fu una strage che «affondava le sue radici Oltreoceano», alludendo ai servizi segreti americani. Le dichiarazioni di Stimamiglio sono state, successivamente, confermate da interrogatori e riscontri. È stata anche effettuata una perizia antropometrica dei carabinieri del Ris che, nel 2016, confrontarono i tratti del viso di Toffaloni, recuperato durante le indagini in decine di fotografie familiari, con quelle del ragazzo fotografato poco dopo l’esplosione della bomba, confermando che quello ritratto nella foto di piazza della Loggia era proprio Toffaloni.

il giudice Guido Salvini

Nella puntata che pubblichiamo di seguito c’è un altro nome importante, rimasto incredibilmente sconosciuto per decenni : Claudio Bizzarri, ordinovista veronese come Toffaloni , indagato dal giudice Occorsio nell’inchiesta su O.N., morto pochi mesi prima della pubblicazione del libro “La maledizione di  Piazza Fontana”  scritto dal giudice Salvini e dal giornalista Sceresini, che lo indica come l’autore materiale della strage della Banca dell’Agricoltura a Milano nel 1969 . 

Di seguito la prima parte dell’articolo di Carlo Bonini e Massimo Pisa apparsa su la Repubblica del 27 gennaio 2022.

Terzo livello ( 1a puntata)

La nuova inchiesta sulla strage neofascista di Brescia porta lì dove nessuno poteva immaginare. Il comando Nato di Verona

Quando l’hanno battuta le agenzie, poco prima di Natale, la notizia ha faticato a conquistarsi una breve. Due chiusure indagini per la strage di piazza della Loggia e due nuovi e semisconosciuti estremisti di destra accusati di aver messo la bomba che dilaniò Brescia alla fine del maggio di 48 anni fa, uccise otto persone, ne ferì un centinaio, inaugurò l’ennesima stagione dello stragismo di mano neonazista con la complicità di pezzi dello Stato. Già perché ha già due colpevoli, quell’attentato, arrivati però soltanto con la sentenza di Cassazione del 2017. Uno, Carlo Maria Maggi, ex capo dell’organizzazione neofascista “Ordine Nuovo” nel Triveneto, è morto l’anno dopo. L’altro, Maurizio Tramonte, la fonte “Tritone” del Sid (l’allora servizio segreto militare), sta ancora combattendo la sua battaglia per la revisione del processo. Per questo, le storie di Marco Toffaloni e Roberto Zorzi – che sono appunto i due accusati dell’ennesima indagine della Procura di Brescia – potrebbero benissimo essere due note a margine della storia nera d’Italia. Invece, nelle 280mila pagine (mal contate) di atti depositati in altro. C’è la consueta ricerca documentale del “secondo livello” (quello degli uomini incardinati nelle istituzioni italiane) e ci sono nomi e cognomi di ufficiali degli apparati: Sid, Carabinieri, Polizia. Ma c’è, soprattutto, l’indicazione di un inedito terzo livello. Parliamo del Comando Forze Terrestri Alleate per il Sud Europa – leggi: Nato – il cui cuore sarebbe stato a Palazzo Carli, a Verona, la città di Toffaloni e Zorzi. Qui, con la copertura di generali dei paracadutisti italiani e statunitensi, si sarebbero svolte le riunioni preparatorie di un progetto stragista che avrebbe dovuto sovvertire la democrazia italiana e rinsaldare lo scricchiolante fronte dei regimi del Mediterraneo. Quello che, all’epoca, teneva insieme il Portogallo salazarista, la Grecia dei colonnelli e la Spagna franchista.

La stessa foto con “Tomaten” da un’angolatura diversa. Sotto lo striscione il corpo dilaniato di una vittima

D’istinto, lo si direbbe un romanzo fantasy costruito su migliaia di informative, verbali, intercettazioni, pedinamenti e vecchi faldoni, recuperati dalla magistratura negli archivi dei nostri Servizi e in quelli degli Stati Maggiori dei nostri apparati militari e della sicurezza a forza di decreti di esibizione, e in cui si dipana anche la storia di un pugno di ragazzi figli di quel tempo. Con la passione per il calcio, le moto, i giochi da adulti, l’esoterismo. Un mondo popolato da donne bellissime e attori, svastiche e orge, agenti doppi e vendette. Per una vicenda tragica che ha fatto morti prima di quel terribile 28 maggio 1974, e forse continua a farne. Già, perché chi indaga sulla strage di Brescia si è sempre trovato di fronte a due nodi da sciogliere. A due bombe. La prima, esplosa nove giorni prima, alle 3 di notte, falciò un ragazzo di vent’anni in Vespa. Si chiamava Silvio Ferrari, era un neofascista che aveva già commesso attentati e andava a far saltare l’uscio della sede della Cisl. Ma non fece in tempo. Saltò in aria all’imbocco di piazza Mercato. Fatalità, errore umano o trappola? Uno dei migliori amici di Ferrari, Arturo Gussago, finì a processo accusato di strage, e come tutti i coimputati fu assolto. Faceva l’avvocato. Il 24 dicembre, quattro giorni dopo la chiusura di questa inchiesta, un infarto lo ha stroncato. Il supertestimone che ha guidato gli investigatori tra i segreti bresciani e fino al comando Nato di Verona (lo chiameremo “Alfa”, per motivi di sicurezza, e sarà l’unico nome che non faremo) ha fatto tanti nomi di persone coinvolte nella strage.Quello di Gussago è stato l’ultimo, pochi mesi fa.

avviso di conclusione delle indagini preliminari a carico di Marco Toffaloni

Déjà vu

Questa storia comincia, o meglio, ricomincia, quando ancora l’ultimo dibattimento è alla prima delle sue cinque puntate. Alla sbarra, oltre a Maggi e Tramonte, ci sono il neofascista Delfo Zorzi (uscito indenne dai processi per piazza Fontana e la strage di via Fatebenefratelli del 1973), Pino Rauti in quanto nume di Ordine Nuovo, il chiacchieratissimo generale dei carabinieri Francesco Delfino, che a Brescia condusse le prime inconcludenti indagini, e il suo confidente Gianni Maifredi. Camicie nere, pezzi di Stato, mondo di mezzo tra neofascismo e criminalità. Giampaolo Stimamiglio è tra le gole profonde di quell’inchiesta e tra i testimoni-chiave dell’accusa. Padovano, molto amico di Giovanni Ventura, ex Ordine Nuovo poi passato alla V Legione, Stimamiglio è un reduce che molto sa e molto ha sentito dire. Nel luglio del 2009, non avendo ancora vuotato il sacco dopo quindici anni di interrogatori, contatta il colonnello del Ros Massimo Giraudo, investigatore che naviga il mare dell’eversione dall’inizio dei Novanta, godendo del massimo della fiducia da alcune Procure (Brescia, Palermo) e del minimo da altre (Milano, Bologna). All’ufficiale, Stimamiglio racconta due cose. Due confidenze che avrebbe raccolto dal generale in pensione Amos Spiazzi, altra vecchissima conoscenza delle trame nere, versante golpista, fin dall’arresto per l’affaire Rosa dei Venti.

La prima: piazza della Loggia, nella sua fase operativa, sarebbe stata una joint venture tra neri bresciani e veronesi.

La seconda: c’era un ruolo atlantico nella regia della bomba, e un uomo chiave sarebbe stato Aldo Michittu. Già, proprio l’ufficiale protagonista di uno scandalo da operetta nel 1993, una storia di complotti presunti e ricatti veri ordita insieme alla moglie e starlette Donatella Di Rosa, impietosamente ribattezzata “Lady Golpe”

Sembra una trama da serie tv, quella di Stimamiglio, che nei mesi successivi aggiunge dettagli nuovi. C’era una “Scuola”, tra i duri e puri di Ordine Nuovo a Verona, che addestrava i suoi adepti agli attentati. Evoca Elio Massagrande e Roberto Besutti, due nomi storici del neonazismo più radicale, e i loro allievi Paolo Marchetti, Fabrizio Sterbeni, Roberto Zorzi, Umberto Zamboni, Marco Toffaloni. Ognuno di loro, negli infernali Settanta, aveva almeno un fascicolo a carico. Dice, infine, il confidente, che ad ammazzare Silvio Ferrari non fu il fato, ma una mano omicida che aveva manipolato il tritolo, ed era scaligera. Stimamiglio vorrebbe il programma di protezione. Nell’attesa, accetta di mettere tutto nero su bianco con i magistrati. La voce corre anche tra i vecchi camerati e qualcuno di loro, come Stefano Romanelli, comincia a parlare tra mille reticenze. Finché, il 6 aprile 2011, Giampaolo Stimamiglio cala l’asso. Rivela di aver incontrato, vent’anni prima, Marco Toffaloni. Erano nel motel gestito a quel tempo da Claudio Bizzarri, altro chiacchieratissimo ex camerata, parà già inquisito da Vittorio Occorsio e di recente accostato alla strage di piazza Fontana. Sorrideva, quel giorno, Toffaloni, rivangando i bei tempi. E a un tratto esclama: “Anche a Brescia gh’ero mi!”. Piazza della Loggia? “Son sta mi!”. Eppure, il 28 maggio 1974, Marco Toffaloni si avvicinava al suo diciassettesimo compleanno. Stimamiglio chiese: c’era anche Roberto, te l’ha consegnata lui? “Sì, certo”. I pm Piantoni e Chiappani e il procuratore Pace sobbalzano. L’11 aprile Marco Toffaloni e Roberto Besutti vengono iscritti nel registro degli indagati. Di Michittu non si sentirà più parlare.

28 maggio 1974 – Le immagini

Tomaten

Il vecchio e il giovanissimo. Un istruttore di lanci d’aereo col mito della Rsi, che dalla metà degli anni Sessanta faceva la spola tra Mantova e Verona, conosciutissimo da Servizi e Antiterrorismo. E un ragazzino col mito del superuomo e dell’esoterismo, delle armi e del fuoco, che si era fatto una fama nera fin da minorenne. Prima con Amanda Marga, la setta importata dall’India che predicava purezza e svastiche. Poi con gli incendi dolosi delle Ronde Pirogene Antidemocratiche, banda che colpiva tra Bologna e Verona e vantava stretti legami – e forse qualcosa di più – con Marco Furlan e Wolfgang Abel, il duo che sotto la sigla “Ludwig” aveva sterminato decine di vittime colpendo tra gay, disabili, frequentatori di discoteche e cinema porno. Lo chiamavano “Tomaten”, Marco Toffaloni. Alla tedesca. Per quel suo vezzo di arrossire spesso. Ma era la sua unica debolezza. Feroce negli scontri di piazza, fin dai tempi in cui distribuiva il giornaletto Anno Zero fuori dai licei dei rossi, per poi pestarli insieme ai camerati. Ma vantava anche letture e frequentazioni kremmertziane, frequentazioni massoniche, amicizie (Rita Stimamiglio, Beppe Fisanotti, Paolo Marchetti) in comune con i Nar Gilberto Cavallini e Giusva Fioravanti.

Non è un’indagine semplice, quella su “Tomaten”. Intanto è diventato cittadino svizzero e ha cambiato nome in Franco Müller, prendendo il cognome dell’ex moglie Silvia. Poi sfida gli inquirenti, non si presenta agli interrogatori, fa sapere di avere coperture tra i carabinieri ed in effetti, rovistando nei suoi fascicoli, i militari del Ros trovano parecchie anomalie. Non è facile nemmeno farsi strada in quell’ambiente. Gli ordinovisti di un tempo tacciono. O sono all’estero, come Roberto Zorzi, che ha portato la famiglia a Snohomish, nei pressi di Seattle, fa il predicatore e alleva dobermann da competizione nel “Kennel del Littorio”. Nomen omen. Oppure muoiono. Scompare Stefano Romanelli, il “camerata Toba”, sul punto di diventare gola profonda. Si spegne, il 31 maggio 2012, Roberto Besutti. E l’accertamento principale, la verifica dei registri scolastici per il 28 maggio 1974, dice che Marco Toffaloni, quella mattina, era in classe. Non si sa se tutto il giorno, soltanto alla prima ora o l’ultima. Ma era al suo banco in 3a B. Anche Spiazzi, interrogato dai magistrati, nega di aver mai confidato alcunché a Stimamiglio, gli accertamenti si disperdono in mille rivoli senza nessun vero sbocco e, alla fine del 2013, il procuratore dei minori Emma Avezzù (“Tomaten” era sedicenne, il giorno della strage) si convince a chiedere decreto d’archiviazione. Non si arrende il pm Francesco Piantoni, in Procura ordinaria, ma il suo fascicolo ora è a carico di ignoti

Alfa

C’era, però, ancora un segreto da esplorare su Marco Toffaloni. Un vecchio commissario in pensione, Giordano Fainelli, racconta al colonnello Giraudo di come, all’Ufficio Politico e al Nucleo Antiterrorismo di Verona, le indagini sui neofascisti avessero parecchi buchi. Pensi, spiega l’ex poliziotto all’ufficiale dei Ros, che una volta perquisimmo la cantina di “Tomaten” e trovammo un deposito di esplosivo. Forse anche quello usato in piazza della Loggia. Ma quel materiale, e quel verbale, sparirono. Ed in effetti Giraudo e l’ispettore Michele Cacioppo, investigatore di punta della Dcpp del Viminale, non trovano nulla in nessun archivio. La ricerca diventa empirica. Anagrafica. Trovare i vicini di casa dell’epoca del ragazzo. Sollecitare la loro memoria. Finché i carabinieri non ne trovano uno che parla. Che sa, o almeno, ricorda: “Non oltre il 1978 mio padre mi disse che Marco Toffaloni era coinvolto nella strage di piazza della Loggia, la notizia la ebbe dai genitori di Marco con i quali era in ottimi rapporti”. E’ un nuovo filo, da seguire. Il testimone indica due amici di “Tomaten”,due frequentatori dei quella cantina. Uno,Nicola Guarino, viene convocato in caserma e colto con la guardia abbassata. Parla di una riunione dell’inizio del ’74 con Toffaloni, imberbe ma già assai critico con le nuove leve di Ordine Nuovo, troppo morbide per i suoi gusti. Per la rivoluzione, diceva, bisognava fare qualcos’altro.

Bisognerebbe, aggiunge Guarino – che dopo quel verbale farà marcia indietro e non collaborerà più – cercare gli altri partecipanti di quella riunione. E gioverebbe, aggiunge l’ex camerata Umberto Zamboni, cercare i proprietari di due vecchie auto, segnalate nelle prime indagini bresciane: una Bmw grigia e una Citroen Dyane celestina, entrambe targate VR. Ne aveva parlato, all’epoca, Ermanno Buzzi, il sedicente “conte di Blanchery”, ambiguo ladro d’arte con le SS tatuate su una mano e agganci ovunque, anche in tribunale. Il primo processo aveva puntato su di lui e la sua corte, in primo grado nel 1979 Buzzi aveva preso l’ergastolo ma non arrivò mai all’appello, strangolato in carcere da Mario Tuti e Pierluigi Concutelli. Tutte le sentenze successive oscilleranno tra il “cadavere da assolvere” e il ruolo operativo nella strage. Gli inquirenti vanno a ripescare tutti i protagonisti del procedimento originario. Si imbattono in “Alfa”, personaggio vicinissimo a Silvio Ferrari, testimone diretto della cena alla pizzeria Ariston, la sera del 18 maggio 1974, tra Silvio e il suo omonimo Nando Ferrari, neofascista veronese che lo convinse a commettere l’attentato, dopo aver festeggiato tutta la notte con amici in una villa sul lago. “Alfa” parla. E rivela uno scenario sconcertante.

( segue)

 

 

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